Come molti critici musicali hanno già avuto modo di rimarcare, nell’attuale panorama rock angloamericano sono ormai pochi gli artisti dalla carriera ultradecennale che possano accampare il merito di essere sempre rimasti stoicamente fedeli a una grande integrità artistica, e a una conseguente raffinatezza stilistica. E forse nessuno può reclamare tale privilegio quanto l’australiano Nick Cave, ormai da oltre un trentennio uno dei pochi in grado di coniugare vette di grande e poetica liricità a sonorità e arrangiamenti dalla forza cruda e spesso devastante – in una curiosa mistura che, se da un lato l’ha reso per certi versi un musicista «elitario», gli ha anche garantito un posto privilegiato nell’olimpo dei veri, grandi cantautori.
In linea con tale maestria, tre anni fa Cave ha commosso il pubblico mondiale dando alle stampe lo straziante Skeleton Tree, magistrale capolavoro di dolente bellezza, pubblicato poco dopo la morte improvvisa del figlio quindicenne Arthur. Una simile tragedia non poteva non avere forti ripercussioni sull’arte di un fuoriclasse come Nick; e difatti, l’ombra del giovane Arthur si allunga con ancor maggior forza e inquietante vigore su questo nuovo Ghosteen – stavolta addirittura un doppio album, strutturato in modo assai peculiare: laddove il primo dei due dischi segue infatti la tracklist più o meno convenzionale di un album di media lunghezza, il secondo CD è invece composto da soli due brani, legati tra loro da un interludio parlato.
Del resto, per quanto Cave sia sempre stato il maestro assoluto dell’introspezione rock nella sua accezione più intensa e destabilizzante – contraddistinta da un’ossessività ipnotica, eppure, allo stesso tempo, spesso consolante e liberatoria – è innegabile come questa tendenza abbia raggiunto l’apice con gli ultimi due album, quasi la perdita devastante subìta lo abbia spinto a espandere il proprio sguardo avventurandosi in territori ancor più estremi. Tale amarezza avvolge l’ascoltatore fin dalla ballata d’apertura, l’onirica Spinning Song, la quale prende spunto dalla mitologia rock per poi tratteggiare un’impietosa istantanea dell’inevitabile caduta e declino che attendono ognuno di noi – il tutto rimarcando però come l’essenza dell’anima sopravviva infine a ogni tormento.
E sebbene Ghosteen cominci a mostrare una certa ripetitività negli arrangiamenti (di fatto molto simili a quelli di Skeleton Tree), la forza espressiva e la vibrante potenza emotiva di ogni brano sono tali da spingere anche l’ascoltatore più distaccato a un’identificazione pressoché immediata, e all’immancabile commozione che ne deriva; una commozione acuita dal fatto che, come già avvenuto tre anni fa, anche quest’album vede Nick indugiare in un suggestivo e misurato recitativo, talmente evocativo e struggente da ammantare l’intero lavoro di profonda malinconia.
Così, tracce come Bright Horses, Waiting for You e Galleon Ship sono pervase dalla sottile spiritualità che ha sempre ammantato ogni sforzo dell’artista, e che qui rivive nei frequenti, quasi criptici (eppure, per nulla pedanti) riferimenti non solo a Gesù, ma anche alla magica innocenza di cui i bambini, qui considerati gli «eletti», sono pervasi; parallelamente, Nick trova anche la forza di intessere un inno all’innata sacralità di qualsiasi forma di amore e devozione, come nella struggente celebrazione della vicinanza coniugale che è la splendida Night Raid e, soprattutto, nella magnificenza dei quasi mistici Sun Forest e Hollywood. Ma più di ogni altro brano, lo straziante Ghosteen Speaks conferma come, inevitabilmente, il tema più caro a Nick sia ormai quello della perdita di ciò che più si ama, e della conseguente attesa di un futuro ricongiungimento – al punto da dare qui vita e voce al «ghosteen» del titolo, il cui nome si può tradurre sia come «piccolo fantasma», che come un gioco di parole tra «fantasma» e «adolescente»: «sono accanto a te, cercami / …sono dentro di te, come tu sei dentro di me». Del resto, la title track dell’album, che apre la seconda parte del disco, costituisce un’incredibile odissea nel ricordo stesso di chi non c’è più, e nella presenza dolorosa eppure salvifica del suo spirito indugiante: «e il passato, con la sua feroce risacca, non ci lascerà mai andare / non ti lascerà mai andare».
Certo, l’intensità quasi eccessiva di quest’album, per taluni versi perfino più complesso di Skeleton Tree, sarà difficilmente apprezzabile da chi non sia abituato alle peculiarità dello stile di Cave; il che potrebbe portare alcuni a lamentare l’apparente «pesantezza» dei lavori più recenti dell’artista. Eppure, proprio qui sta la forza di questo Ghosteen, il cui fascino non risiede solo nelle atmosfere «otherworldly» e quasi gotiche, ma, soprattutto, nella travolgente forza emotiva, in grado di parlare a chiunque conosca non solo il sapore devastante della tragedia e della sconfitta, ma anche quello della gioia e potenziale rinascita che qualsiasi forma di sincero, vitale affetto porta con sé.