«A Poschiavo e Brusio c’erano due classi sociali ben distinte: i cattolici contadini, generalmente – ma non sempre – poveri e i riformati, generalmente – ma non sempre – ricchi e colti».
Per percorrere il borgo di Poschiavo da cima a fondo ci vorranno, abbondando, cinque-dieci minuti al massimo. Si ha tempo di ammirare l’insediamento tradizionale che associa, secondo stridere piuttosto diffuso nell’arco alpino italofono, stalle e casupole dignitose ma misere nei materiali e nella costruzione da una parte e palazzi di discreta ma indiscutibile eleganza dall’altra. Se si prende la via più borghese, si ha poi l’agio di incontrare sul lato sinistro prima la chiesa riformata e poi, giunti in piazza, quella cattolica. Una manciata di minuti, appunto per arrivare in fondo: il villaggio pare, per servizi e attrezzature sociali, realtà autosufficiente e di discreto respiro, ma i soli 3500 abitanti e la limitatezza dell’insediamento lo classificano nella categoria delle piccole realtà.
Ora, chi si intenda un po’ di linguistica e chi si interessi di una sua sorellina, la minore dialettologia, avrà certo sentito parlare almeno una volta di una stranezza sociolinguistica che si dice caratterizzi il Borgo e che forse, più per una lacuna di indagine che per sue caratteristiche, ai più veniva la tentazione di classificare tra le leggende bislacche, si direbbe metropolitane, trasmesse di bocca in bocca e di generazione in generazione. Si dice infatti che una linea di variazione sociolinguistica separi da secoli la comunità religiosa riformata da quella cattolica e che questa variabilità abbia finito per configurare due dialetti diversi. Nell’ultimo numero della bella rivista «Quaderni grigionitaliani» torna sulla questione un benvenuto articolo di Simone Pellicioli, che porta i risultati di una analisi finalmente sistematica sul fenomeno, che, andrà detto subito, c’è ma probabilmente c’è, al giorno d’oggi, già un po’ meno, e sta per scomparire.
Le differenze, ci dice Pellicioli, si possono trovare nel repertorio lessicale (qualche parola) o in quello fonetico-fonologico (qualche suono). Che questo materiale possa permetterci di parlare di due dialetti diversi non sappiamo; sta di fatto che per dire «prato» i cattolici direbbero pru e i riformati pra, per «fiato» rispettivamente flu e fla, per «tovagliolo» serviéta e mantín, per «zia» zía e ámia. Il participio passato fa -ú di qua e -á di là: mangiú e mangiá, cantú e cantá, rivú e rivá. La spiegazione di tutto ciò, visto che tutto ciò non è certo casuale, va cercata ovviamente nelle condizioni sociali: quindi, l’emigrazione e l’interferenza con le lingue di approdo, le scuole separate (fin dalla scuola dell’infanzia) per i due gruppi confessionali, costumi linguistici e volontà di distinguersi delle classi privilegiate, diversi gradi di acculturazione e di vicinanza alla lingua italiana, maggiore respiro e apertura della comunità riformata, il ruolo dei pastori e dei loro dialetti importati nel Borgo.
Al giorno d’oggi queste differenze sopravvivono, sembra, solo nella memoria di qualche anziano o nella sensibilità di chi si interessi di fenomeni e curiosità linguistiche; le comunità sono ormai sempre meno separate, sale l’influsso da una Lombardia socioculturalmente piuttosto promiscua e così al saputo che, interrogando persona attribuita all’una o all’altra delle due comunità, indichi questa o quella forma può capitare di uscire deluso e vedere vanificata la sua previsione tutta teorica. La storia dei due dialetti poschiavini ci dice però molto su come le fratture di una anche piccola comunità possano essere state antiche e nette. Tanto da far parlare ai propri componenti due lingue letteralmente diverse.
Bibliografia
Simone Pellicioli, Differenze tra il dialetto poschiavino cattolico e quello evangelico riformato a Poschiavo, «Quaderni Grigionitaliani, 86, 2017.