La direzione di Eike Schmidt ha riportato ordine e nuova luce ad uno dei luoghi più visitati d'Italia (it.wikipedia.org)

 

 


Il circolo virtuoso di Eike Schmidt

A colloquio con il direttore della Galleria degli Uffizi di Firenze, recentemente ospite dell’associazione «Nel»
/ 15.01.2018
di Ada Cattaneo

È tedesco, ha 49 anni e dal 2015 è direttore degli Uffizi, dove rimarrà fino al 2020. La prossima tappa della sua carriera è già decisa: la direzione del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Eike Schmidt è una persona elegante, di grande garbo e disponibilità; il suo italiano è perfetto. La nomina di uno straniero alla direzione del più visitato tra i musei italiani, avvenuta a seguito della riforma voluta dal ministro Dario Franceschini, fece a suo tempo molto scalpore. Se qualcuno avesse avuto dei dubbi al riguardo, egli si è finora destreggiato al meglio nella complessità che comporta dirigere un museo come quello fiorentino, fra pregevoli capolavori da tutelare, visitatori da accogliere (oltre 2 milioni nel 2016) e burocrazia da fronteggiare. Il pubblico ticinese ha avuto modo di ascoltare Eike Schmidt in novembre, in occasione di una conferenza a Lugano, organizzata dall’Associazione «Nel – Fare arte nel nostro tempo», dedicata al tema delle passioni. Schmidt ha risposto anche ad alcune domande per i lettori di «Azione».

Signor Schmidt, quale situazione si è trovato di fronte nel 2015, al momento di iniziare il suo incarico come direttore della Galleria degli Uffizi?
Ho trovato una delle collezioni più fantastiche al mondo, fra le più belle e ampie che si possano immaginare. Ma ho anche trovato una situazione molto caotica per quanto riguarda la gestione, sale affollatissime e lunghe file. Non esisteva un sito internet: c’erano alcuni siti web con il nome degli Uffizi, ma erano tutti abusivi, di agenzie turistiche, ma soprattutto gestiti da «bagarini». Tutti cercavano di utilizzare il nome del museo per fini commerciali, in modo più o meno illecito, nella zona grigia fra legalità e illegalità. Le uniche informazioni ufficiali erano quelle sul sito del Polo Museale Fiorentino, all’interno del portale del Ministero dei Beni Culturali, ma erano solo per addetti ai lavori e non per il pubblico.

E cosa lascerà di diverso nel 2020?
Da subito mi sono occupato di fondare un dipartimento per la comunicazione digitale così da colmare le lacune informative a cui accennavo: abbiamo inizialmente avuto un sito temporaneo, molto semplice. Abbiamo dovuto riacquistare il dominio «www.uffizi.it», che era detenuto da privati, con scopo commerciale. Poi ci siamo messi a lavorare per una campagna di branding, insieme allo studio di comunicazione visiva di Milano, Carmi e Ubertis, autori tra l’altro dell’immagine coordinata per Expo 2015. Con loro abbiamo sviluppato una nostra identità grafica, presentata a settembre 2017. In parallelo abbiamo sviluppato un sito internet vero e proprio che possa rispondere alle esigenze dei visitatori, non soltanto pratiche, ma anche conoscitive sulle opere d’arte. È tuttora in evoluzione: ogni settimana vengono aggiunte nuove pagine, nuove schede; è una struttura organica che crescerà ulteriormente.

Per quanto riguarda gli interventi concreti volti a migliorare la situazione di affollamento al museo, abbiamo soprattutto operato nella serie di sale dedicate a Botticelli e al primo Rinascimento: sono state riallestite secondo principi non più basati sull’opera d’arte in astratto, ma sul rapporto concreto che lega opera, spazio architettonico e visitatore. Per questo motivo oggi possiamo avere tranquillamente anche cento persone di fronte alla Primavera di Botticelli e tutte saranno in grado di vedere il quadro, addirittura a pochi centimetri di distanza. Questo avviene grazie ad una nuova tecnologia che utilizza il vetro, creando anche un microclima adatto a proteggere la tela da sbalzi di temperatura e di umidità.
Stiamo applicando gli stessi principi alle sale dedicate a Caravaggio e alle pitture del primo Seicento. Gli ambienti che ospitavano Botticelli erano le sale peggiori di tutto il museo: somigliavano più ad una bolgia dantesca che a un ambiente museale. Ma più o meno la stessa situazione si osservava anche di fronte alle opere di Caravaggio, verso la fine del percorso espositivo. Perciò nelle prossime settimane riallestiremo anche questi spazi, in modo da offrire una nuova esperienza museale, molto più diretta e molto più tranquilla, oltre che di maggiore impatto. La scelta è anche quella di favorire una visione comparata delle opere esposte le une accanto alle altre: senza un’eccessiva preparazione dovrebbe essere già possibile per i visitatori leggerne alcuni aspetti grazie al confronto fra di esse. Il tentativo è quindi quello di stimolare l’attività intellettuale del visitatore e perfino il dialogo fra gli stessi visitatori.

Come avete organizzato la gestione dei flussi di visitatori?
La tecnologia ci ha molto aiutati. Abbiamo iniziato un progetto di ricerca insieme all’Università dell’Aquila, specializzata proprio in questo settore, e con loro abbiamo sviluppato un nuovo sistema di gestione. Per ora è un protocollo ancora sperimentale: lo abbiamo applicato alle domeniche in cui il museo è aperto al pubblico gratuitamente, quando il numero di visitatori aumenta incredibilmente. Abbiamo potuto verificare che questo nuovo metodo è in grado di accorciare le code in maniera sostanziale. Presto saremo in grado di applicare il sistema anche ai giorni di normale apertura.

I numeri non sono certo la soluzione a tutto, ma le recenti statistiche dicono che i vostri visitatori sono sempre di più. Quali sono le ragioni?
I nostri numeri non sono cresciuti per un miracolo. Se si considerano le lunghe file di attesa, ci si può chiedere se sia veramente un bene che il pubblico aumenti. Ma la nostra crescita è avvenuta proprio nei mesi invernali, cioè nei quattro mesi di bassa stagione. A Firenze non esiste una mezza stagione: gli altri otto mesi dell’anno sono alta stagione. Da novembre a febbraio, invece, gli Uffizi erano piuttosto vuoti e i nostri numeri sono cresciuti proprio in questo periodo, grazie a una serie di nuove iniziative. Ora, nel corso dell’inverno presentiamo grandi mostre, che in precedenza erano concentrate nel periodo estivo. Inoltre, organizziamo una serie di concerti: per esempio, a Palazzo Pitti un festival dedicato a giovani musicisti classici, con due concerti al giorno che sono inclusi nel biglietto di entrata al museo.

La sua gestione è anche frutto della riforma museale voluta da Dario Franceschini. Essa garantisce un’autonomia tutta nuova agli istituti. Questo ha effettivamente comportato dei benefici dal punto di vista gestionale?
Certamente. Il fattore principale di questa riforma è proprio l’autonomia economica, gestionale e scientifica. Prima era irrilevante quanti soldi si ricavavano dai biglietti e quanto si risparmiava grazie a investimenti oculati perché tutte le entrate venivano trasferite direttamente al Ministero, e i finanziamenti che tornavano l’anno successivo non erano calcolati in proporzione ai versamenti fatti. Non si era in alcun modo motivati a garantire una gestione razionale. Ora invece c’è una motivazione: se generiamo risorse possiamo anche permetterci di investirle per migliorare la situazione concreta.

Lei si è anche impegnato per dare nuova importanza alle aree cosiddette periferiche, ma che rientrano nel patrimonio degli Uffizi.
Senz’altro. Per esempio Palazzo Pitti era frazionato in diverse gallerie, ciascuna con un biglietto diverso. Questo disincentivava il visitatore. Noi ci siamo preoccupati di unirle e di garantire un unico biglietto, che è entrato in uso dal maggio di quest’anno. Si tratta di una realtà straordinaria che ora è valorizzata e ciò avverrà sempre più anche nel prossimo anno. Il pubblico verrà incentivato con tariffe agevolate: il biglietto, se acquistato di prima mattina, costerà la metà. Poi abbiamo iniziato una serie di restauri, sia qui sia ai Giardini di Boboli, tutte aree neglette negli ultimi decenni.

Passando ora all’incontro di Lugano, quali sono i temi affrontati?
Ho parlato del tema delle passioni nell’arte, esemplificandole con opere dalle Gallerie degli Uffizi. È chiaro che parlando di questo, si debba iniziare da colui che per primo se n’è occupato, cioè Charles Le Brun (1619-1690), che per primo scrisse un’opera proprio sulla rappresentazione delle passioni nell’arte. Egli fu pittore alla corte di Luigi XIV e poi presidente dell’Académie de Peinture a Parigi e dell’Accademia di San Luca a Roma. Il suo trattato venne pubblicato postumo nel 1698 e fu poi la base per ogni discorso sulle passioni raffigurate nelle opere d’arte. Si trattava di un soggetto fortemente sentito nel periodo barocco e per questo era per lui di grande interesse. Egli osservava il movimento esteriore dei corpi, così come quello interiore, dell’animo. Nella conferenza ho proposto alcuni esempi, basandomi proprio su Le Brun. Ho concluso con una passione fortemente connessa con il mondo dell’arte, cioè quella per il collezionismo.

Riguardo al tema delle passioni, mi sembra di capire che lei abbia trovato nel lavoro il modo per coltivare le sue: continua infatti a svolgere un’intensa attività di ricerca scientifica.
Secondo me è importante non scindere ambito gestionale e ambito storico-artistico: non credo che possa funzionare avere una persona che si occupi solo di gestione e un’altra che controlli solo gli aspetti scientifici dell’arte. Questo può condurre a un atteggiamento sterile. La ricerca e la gestione possono aiutarsi a vicenda, la ricerca può esser utile dal punto di vista collettivo. Inoltre, educazione e ricerca vengono troppo spesso separate. Qualcuno è incaricato di occuparsi solo di ricerca e qualcun altro solo di divulgazione, ma in realtà la ricerca può avere grande vantaggio se trae ispirazione dagli aspetti sociali del museo, quindi anche dalla gestione. Vale anche il contrario. È un circolo virtuoso che bisogna creare e coltivare.