«C’è chi mi ha detto: “Ah, davvero, fanno cinema in Bhutan, non lo sapevo”. Allora io di colpo non ho più avuto dubbi su quanto il nostro lavoro fosse utile». Sophie Bourdon è responsabile di Open Doors, porte aperte, la costola di Locarno Festival che è sponsorizzata dalla Confederazione, più precisamente dalla Direzione Sviluppo e Cooperazione del Dipartimento Federale degli Affari Esteri.
Open Doors crea possibilità di formazione e lavoro per i registi dei paesi in cui la Svizzera opera nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. Non fornisce direttamente soldi ai professionisti del cinema dei vari paesi del Sud e dell’Est del mondo, ma funge da piattaforma di incontro tra questi e i vari produttori internazionali. In altre parole cerca di organizzare occasioni di conoscenza tra chi fa Cinema in nazioni in cui manca un’industria cinematografica e chi ha i mezzi per finanziare i film indipendenti.
«Ogni tre anni scegliamo una regione e poi andiamo a promuovere il bando di concorso tra le istituzioni, i singoli registi, le associazioni cinefile, quando ci sono, e così via. Poi cominciamo a ricevere candidature dalle quali, insieme a esperti cinematografici, scegliamo quella manciata di progetti che ci sembrano più interessanti e concretamente attuabili». Otto registi (quest’anno è il terzo turno del Sud asiatico) che hanno avuto l’opportunità di venire a Locarno in agosto per ricevere una formazione supplementare e per incontrare i possibili finanziatori dei loro lungometraggi; una giuria inoltre assegna un premio al migliore dei loro progetti.
«Credo che Open Doors sia una sezione che rifletta l’identità del Festival intero», spiega Sophie Bourdon, parigina che ormai si sente adottata da Friborgo e un po’ anche da Locarno. «Da sedici anni siamo una finestra sul cinema del mondo e scambiamo arte con chi arriva: apriamo la porta, facciamo entrare film e usciamo dall’altra parte, a vedere cosa c’è. Il nostro compito è prima di tutto cercare talenti e belle storie da raccontare e andiamo a cercarli nei luoghi che di solito il mondo del cinema dimentica. Ecco perché per esempio quest’anno nel Sud dell’Asia non abbiamo messo l’India, perché il cinema indiano è già seguito in maniera abbastanza approfondita. Andiamo invece dove ci sono problemi di libertà di espressione e carenza di tecnica, che aiutiamo a superare. Ci sono luoghi dove mancano perfino le scuole di cinema, i festival, le sale dove proiettare i film più ricercati. Di solito sono paesi dove c’è una gran voglia di dire, di dare, di vivere. In Afghanistan, come in Bangladesh, Bhutan, Pakistan, ho trovato una grande forza. Tutti mi hanno chiesto: “Ma al festival di Locarno si può parlare di tutto? Di Islam, di donne, di omosessualità, di guerra?”».
Poi, il compito di Open Doors è realizzare i sogni dei realizzatori, ma anche di sostenere localmente chi vuole creare occasioni di crescita in ambito cinematografico: festival, formazioni, case di produzione indipendenti. Le nazioni coinvolte nel programma di quest’anno, oltre a quelle già citate, sono anche le Maldive, Myanmar, Nepal e Sri Lanka.
Spesso, nei paesi a forte presenza di Ong, non mancano del tutto i soldi per la cultura, per il cinema. Accade però che i prodotti abbiano un forte tocco «sociale» con tendenze al «politically correct». È una buona cosa, per Sophie, però Locarno lavora diversamente: lascia libertà di tema al regista e punta veramente solo a promuove la qualità artistica. «Esiste forte anche un’industria per il Cinema popolare, come se ogni paese avesse la sua Bollywood. La cultura del fare film è dunque molto incentrata sul regista e poco sul lavoro di squadra, come piuttosto avviene nel mondo occidentale. Mi è capitato di vedere una cosa incredibile, grazie alle collaborazioni che promuoviamo qui. Uno dei nostri registi, grazie alle giornate di Open Doors, è riuscito ad avere accesso a un fondo europeo che consisteva in soldi e in aiuti tecnici. All’inizio lui non poteva sopportare l’idea che il montatore, o il tecnico del suono, gli dessero un suggerimento, perché pensava fosse offensivo nei suoi confronti. Alla fine del lavoro mi ha detto: “Sophie, ho capito una cosa meravigliosa, quei tecnici avevano colto l’arte del mio film e desideravano darmi il loro sapere per migliorarlo”».
Durante Locarno Festival, sezione di Open Doors, c’è sempre anche una selezione che introduce il pubblico a conoscere la cultura cinematografica della regione del triennio, proponendo una ventina di film, documentari, finzione, lunghi e corti. «Vogliamo presentare cosa si fa oggi in quella regione del pianeta, i più bei film e quelli delle nuove generazioni», spiega la responsabile. «Spesso vedere quei film cambia il nostro modo di vedere i paesi da cui provengono. Prima li vediamo solo come luoghi di miseria e attentati quotidiani... invece poi ci si accorge che la vita vi scorre, allegra o triste come dovunque, con l’amore e l’amicizia, la ricerca di senso e i tabù di ogni società». Per Sophie un buon film è sempre un viaggio, un’evasione, un invito del regista a entrare in un universo suo originale, dove dentro si trovi qualità tecnica, artistica e emozioni, con un pizzico di novità.
Chi lavora per Open Doors si può definire un’ostetrica di idee: rende possibile e tira fuori dalla pancia dell’artista il suo progetto. Durante il Festival, oltre a formazione e incontri, offre una madrina o un padrino per questo progetto, che a volte, dicono i partecipanti, è la cosa più bella che si possa immaginare: «Qualcuno che ti capisce, all’altro capo della Terra». Magari alla fine quello che viene o non viene realizzato è diverso dall’idea iniziale, dallo script che Sophie e il suo staff hanno provato a far nascere. Ma questa, come dicono i francesi, c’est la vie.
Mi aveva raccontato la precedente responsabile della sezione che una delle soddisfazioni più grandi per lei era stata quando, nel 2010, il film che aveva vinto il Pardo d’Oro di Locarno era uno dei lungometraggi che Open Doors aveva seguito l’anno prima. O quando un altro film era stato premiato al Festival di Berlino.
«Ciò di cui sono più fiera è l’attenzione che mettiamo in questa accoglienza, in questo parto dell’artista», conclude Sophie Bourdon. «Altrove magari si punta di più sul business, mentre noi qui curiamo la fiducia, diamo importanza all’ispirazione, abbiamo rispetto: sono tutte cose di cui necessita un regista che viene da mondi lontani, dove l’accesso alla cultura è più difficile che da noi».