Ci vuole un pallone da football per scoprire l’anima nera del Brasile. Bisogna farlo rimbalzare indietro nel tempo nell’urlo degli stadi e nell’ebrezza delle vittorie; prima che i giocatori fantasisti brasiliani, imbattibili saette in verde e oro, diventassero leggenda; ancora prima di Pelé e del mitico Garrincha; solo così si può capire la poesia di quel calcio legato alla storia del Paese, a metà tra capoeira e samba. Ce la racconta Olivier Guez in Elogio della Finta, piccolo libro dove sulla copertina è immortalato proprio Manuel Francisco dos Santos, lo «scricciolo», Garrincha appunto, fotografato nel bel mezzo di una delle sue «diaboliche esibizioni»: nel 1958, nel 1962, eccolo che gioca con il pallone «come un gattino con un gomitolo di lana», mentre la squadra avversa boccheggia, «i difensori restano con un palmo di naso, o si scontrano tra loro, ridicoli e umiliati».
Per Guez, che abbiamo incontrato poco tempo fa, alla presentazione del libro a Roma, all’Accademia di Francia, il calcio è una passione che l’ha conquistato sin da bambino mentre studiava la geografia con le squadre della Coppa d’Europa degli anni 80, e la sera si lasciava contagiare dall’entusiasmo dello stadio che gli arrivava attraverso il televisore, così si sgolava nel silenzio della casa, dimentico del sonno delle sorelline e delle sberle di suo padre. Divenuto giornalista e scrittore, Olivier Guez (La scomparsa di Josef Mengele) nella sua «adorazione» per il calcio, per raccontare il Brasile della Coppa del Mondo del 2014, decise di ricordare i grandi giocatori brasiliani: gl’invincibili «re della finta e del dribbling», cercando di scoprire dove e come fosse nata quella tecnica sublime che ad una certa epoca aveva reso la squadra del Brasile superiore a tutte le altre.
«Avevo sempre pensato che il football fosse espressione ineluttabile della società e della storia dei vari paesi, ma andando alle origini del calcio brasiliano, non mi aspettavo di trovare un tale intrico di cause e conseguenze, di disparità e sofferenza» ci ha detto. «Il football arrivò in Brasile nel 1894, nei primi anni dell’abolizione della schiavitù (la legge è del 1888), portato dagli inglesi e fu subito adottato dalle élite bianche come lo era stato il tennis e il cricket, tanto che ai primi del ’900, sono i club velici di Rio, Flamengo, Vasco da Gama e Botafogo a inaugurare le sezioni di calcio, e, si va alle partite azzimati come al teatro dell’opera».
Tuttavia dopo poco tempo il gioco del football dilagava e quella prima partita passata alla storia tra i dipendenti della Compagnia del Gas paulista e quelli della São Paolo Railway Company, tutti inglesi, veniva replicata dagli emigrati italiani, dai tedeschi, dai polacchi e in breve anche dai neri e dai mulatti che, come gli altri, con impegno e senza scarpe, correvano dietro ad un pallone di stracci, ma rigorosamente per conto proprio. I neri non potevano giocare con i bianchi e non erano neppure ammessi tra il pubblico. I primi mulatti che ci riuscirono, dovettero «travestirsi»: lisciarsi i capelli con chili di brillantina e «schiarirsi» il viso con abbondanti passate di cipria. Ma soprattutto durante il gioco, dovevano evitare qualsiasi contatto fisico con i giocatori bianchi, e così misero a punto una tecnica per ingannare e battere l’avversario tenendolo a distanza. Ecco il fantastico segreto dei giocatori brasiliani: le «finte» sono l’eredità degli schiavi dell’Angola e quel movimento repentino delle anche e del bacino, è lo stesso che si ritrova nella capoeira, la loro lotta, e nella samba, perché il calcio in Brasile è emanazione diretta della cultura afro-brasiliana.
Il piccolo libro di Guez è una miniera di fatti, di nomi leggendari come Arthur Friedenreich, la prima star del calcio brasiliano, un mulatto dagli occhi verdi di padre tedesco, soprannominato El Tigre, un giocatore fortissimo, grazie al quale il Brasile vinse la Coppa America nel 1919, e poi la perse due anni dopo, quando, come l’Argentina, decise di far giocare la Coppa solo dai bianchi. Ma l’anno successivo riammise El Tigre e riconquistò il titolo. «Fried» era un’artista della schivata, la sua tecnica disorientava e sconcertava tutti, ma lui sapeva che «il giocatore nero che serpeggia e ancheggia evita le cariche violente degli avversari bianchi e non verrà pestato né in campo, né dagli spettatori a fine partita: il dribbling può salvargli la pelle».
Lui è uno dei primi malandro del calcio, figura mitica che, come quelli delle favela cantati da Chico Buarque, si muove furbo e leggero «tra legalità e illegalità»; flirta con il fuorigioco e con la linea laterale; danza su un filo, sempre al limite che sia la bandierina del corner, o la favela, come gli idolatrati Leonidas, Garrincha, Pelé, emblemi di quel futebol mulato che dava spettacolo. Il glossario divertito di Olivier Guez ci racconta le tante figure del calcio di strada dalla pedalada, all’ovinho, al chapeu, e allo stesso tempo ci dimostra come quella gorduchinha danzante, (la grassottella), uno dei tanti vezzeggiativi femminili con cui da quelle parti gli adepti chiamano il pallone da football, ebbe l’effetto di una palla di cannone sulla società brasiliana.
In Elogio della finta Olivier Guez porta in campo con passione e allegria la musica, l’antropologia, l’economia, la politica e la storia per raccontarci, anche attraverso epiche partite, non solo l’evoluzione del calcio brasiliano sino ai nostri giorni, ma come questo sia strettamente legato alla Storia del Brasile.