Fa sempre bene assistere alla rilettura di un classico, soprattutto quando è corroborata da una brillante versione. Il Teatro di Locarno ha ospitato Il borghese gentiluomo di Molière con la regia di Armando Pugliese, una «comédie-balet» che, sebbene scritta nel 1670 come divertimento di corte, conserva tutta la crudeltà satirica con cui descrive la società del tempo, per certi caratteri così simile a quella attuale. La vicenda è nota ma va ripercorsa almeno nei suoi tratti principali. Il ricco Monsieur Jourdain è a caccia di un titolo nobiliare e si circonda di maestri che lo sfruttano. La figlia Lucille ama il borghese Cléonte ma è osteggiata dal padre che invece cerca per lei un conte o un marchese.
La commedia si divide in due parti. La prima è dedicata alle esilaranti lezioni dei «maestri di nobiltà» di Jourdain mentre nella seconda si assiste a un finto cerimoniale dove un sedicente Gran Turco riveste il borghese Jour-dain di un finto titolo nobiliare per sposarne la figlia.
In una società dove la nobiltà in senso lato (intellettuale, politica, economica, sociale, ecc.) sta sparendo a grandi falcate, è evidente che in una commedia così ci si specchia facilmente. Soprattutto se l’ironia e il divertissement satiro-farsesco della regia di Pugliese trovano terreno fertile e vengono assecondati da una compagnia di ottimi attori con uno spirito che ripercorre i generi. Da Emilio Solfrizzi, vulcanico protagonista (nella foto) all’autorevole Anita Bartolucci nel ruolo della moglie e tutti gli altri attori. Un plauso speciale alle musiche di Antonio Sinagra. E il pubblico ha gradito assai.
Alla ricerca di un’identità
Ci piace seguire l’evoluzione di giovani compagnie. Quella del «Grande Giro» nasce nel 2013 per iniziativa di Valentina Bianda, Lea Lechler e Loris Ciresa con l’intento di promuovere la cultura sul territorio, obiettivo meritevole affiancato da immancabili domande identitarie: una visione comune a molte realtà artistiche che richiede sforzi non indifferenti per uscire dai luoghi comuni.
Avevamo già registrato questo tentativo con I am, spettacolo visto al Teatro Foce di Lugano e che aveva la dichiarata ambizione di adottare il registro espressivo del «teatro danza». Quella produzione ne conteneva però solo alcuni degli ingredienti necessari: l’avevamo letto come segnale di un potenziale sviluppo, concludendo che dai giovani ci si doveva attendere un maggiore coraggio espressivo e una giusta dose di umiltà, per esempio affidandosi a una regia esperta o a un dramaturg, figura professionale tornata in voga e spesso utilizzata per riordinare gli elementi espressivi della comunicazione teatrale.
Torniamo a questa riflessione dopo aver recentemente visto la seconda produzione del «Grande Giro» al Teatro Foce, dove ha debuttato Fremde – Radici in tasca di e con Lea Lechler, con la messa in scena di Daniele Bianco e Valentina Bianda nelle vesti di «coach artistico» e le musiche originali di Manuel Beyeler. La locandina avverte che è un primo studio scenico per l’assolo di teatro fisico della protagonista. Il tema è nuovamente quello dell’identità questa volta sviluppato sul tema del viaggio di una «nomade della vita»: una senzatetto, rifugiata, migrante o girovaga alla ricerca del senso della vita.
Senza nulla togliere alle buone intenzioni di una ricerca nutrita da autorevoli spunti letterari, l’impressione che ne abbiamo tratto è quella di un esercizio incompleto, dove la protagonista mette in campo una performance appena sufficiente per un’esibizione senza sorprese in cui il peso specifico della parola ha una presenza troppo importante rispetto al movimento offrendo un risultato ancora lacunoso e che lascia troppe concessioni alla dimensione amatoriale a scapito di una professionalità che richiede confronti severi ed esigenti.