I sogni della vergogna

A dieci anni dalla morte, ricordare Ingmar Bergman attraverso un suo film
/ 24.07.2017
di Daniele Bernardi

Sarebbe troppo facile – e inutile – commemorare Ingmar Bergman (Uppsala, 1918 – Fårö, 2007) come il regista de Il settimo sigillo (1956) e Il posto delle fragole (1957). Se questo pretesto degli anniversari ha un senso, è forse quello di mettere in luce il vissuto artistico da una diversa prospettiva, o quello di cogliere l’occasione per sfilare, dai cassetti del passato, oggetti inconsueti, dimenticati – e, chissà perché, oggi poco valorizzati.

Il grande regista svedese – che, non va dimenticato, fu innanzitutto un uomo di palcoscenico e, al contempo, un cineasta – non è «solo» l’autore di notissimi film quali Sussurri e grida (1971), Sinfonia d’autunno (1977) e Fanny e Alexander (1982). Nella sua intensa carriera Bergman ha diretto teatri, messo in scena pièce e, pure, prodotto alcune pellicole ora meno considerate. È questo il caso, credo, de La vergogna – del 1968, con due importanti protagonisti dell’universo bergmaniano (Liv Ullmann e Max Von Sydow) e vincitore, all’epoca, di svariati riconoscimenti.

La storia è semplice è scarna: una coppia di ex-musicisti, Jan ed Eva, vive su un’isola mentre sulla terraferma imperversa la guerra. Da principio, questa sembra essere solo una lontana eco: le notizie dei media sono confuse e, ancora, non si comprendono gli sviluppi del conflitto. Man mano però, attraverso tanti piccoli segni, qualcosa pare penetrare dentro alle esistenze degli abitanti: gli autoblindo sfilano massicci nelle vie; l’esercito si palesa chiamando alle armi i cittadini; la gente, che spesso preferisce non pensare e, soprattutto, non parlare, si fa inquieta (è quel che dice il fragile Jan all’inizio del film: meglio non saperne niente). Ma la guerra arriva.

Se c’è un aspetto preminente del film, assieme alla potenza delle immagini fotografate da Sven Nykvist, è il sonoro: dallo stridere dei titoli di testa, al trillare disturbante del telefono, al rintocco ossessivo di una campana, fino ad arrivare allo sconquasso dei bombardamenti e alle fiamme, il rumore pare dominare il destino dei coniugi – sempre Jan, mentre l’aviazione si accanisce e il nemico è ovunque, crederà di impazzire a causa del frastuono (non si dimentichi il mestiere dei protagonisti: musicisti).

Lo svolgersi de La vergogna (che nell’originale si intitola solo Skammen, senza l’articolo) è interamente concentrato sul corrompersi della relazione inscindibile tra la Ullmann – apparentemente più forte – e Von Sydow: quindi sulla «piccola guerra», come la chiamò lo stesso Bergman nel suo libro Immagini (Garzanti, 1992), in cui «la confusione è totale e dove nessuno sa niente». Questo contorcersi degli affetti, infatti, sembra essere il riflesso particolare del grande annientamento.

Bergman dava profonda importanza ai propri sogni (alcuni di questi, identici, appaiono nei suoi film) e pure La vergogna, da principio, era infatti pensato come I sogni della vergogna. Per quale ragione? Mentre viene trattenuta dall’esercito in attesa di un interrogatorio, Liv Ullmann confiderà di sentirsi come il personaggio di un sogno, ma un sogno non suo, di un altro: cosa sarà di noi, dice, quando questo «altro» si sveglierà e si vergognerà del proprio sogno? Forse Bergman, involontariamente, voleva ricordare quanto l’inconscio, che contiene parti sostanziali di noi stessi, indichi anche la radice inaccettabile delle nostre pulsioni?

La guerra che ci offre, come la peste di Antonin Artaud, è un evento disvelante: i ruoli si rovesciano: il più debole diviene il più feroce e chi, al contrario, sembrava saldo crolla di fronte alla natura manifesta della crudeltà. E in effetti, non è forse questo ciò che mostra la persona di Jan? Un indifeso che, di fronte al vendersi della compagna al borgomastro, coglie senza indugio l’occasione per giustiziare quest’ultimo come collaborazionista; un «innocente» che uccide un giovane disertore per rubargli il posto sulla barca che potrebbe trarlo in salvo, lontano dall’isola.

Bergman sosteneva che, «nel mondo degli incubi», era uno «di casa»; e come un incubo, «per immagini», aveva narrato questa storia. Aggiungeva anche, in una testimonianza, di concepire l’inferno come un luogo pieno di luce, bianco, offuscato da un chiarore abbacinante, senza nubi. Lo conferma l’ambientazione della scena conclusiva del film: ormai imbarcati, non più in grado di parlare, i due viaggiano coi profughi in mezzo all’acqua. Attorno picchia un sole cocente. D’improvviso, la barca si incaglia: Max Von Sydow si sporge oltre il bordo e scorge, sul pelo dello specchio, l’affiorare di una catena di cadaveri.

Invano, i fuggiaschi tentano di muovere l’imbarcazione ma i remi arrancano sui corpi. Mentre il gruppo resta a bruciare tra la scarsità delle onde, la Ullmann rammenta ancora un sogno e il perduto desiderio di avere un figlio. Nell’era della guerra in Siria, degli attentati suicidi e delle migrazioni che affollano un Mediterraneo in cui nuotano le salme, non è forse questa la vergogna che qualcuno sogna? Non potrebbe risiedere in questa pellicola la sulfurea attualità di un Ingmar Bergman oggi meno noto?