Il Seicento è il secolo dell’assolutismo. Già nel Cinquecento Pierre Grégoire nel De Republica sostiene che il sovrano è responsabile solo davanti a Dio. Il re d’Inghilterra Giacomo I Stuart nei suoi The True Law of Free Monarchies e Basilikon scrive che il sovrano è imago Dei, ovvero immagine di Dio. Cardin Le Bret con De la souveraineté du roi precisa che dovere del suddito è obbedire al sovrano, buono o malvagio che sia. Il vescovo francese Jacques-Bénigne Bossuet afferma, infine, che il potere del Re deriva direttamente da Dio. Insomma, il sovrano detiene il potere assoluto su tutto e tutti.
In questo contesto troviamo i tre cavalieri dell’Apocalisse, la carestia, l’epidemia e la guerra, che seminano miseria. Secondo le stime di Gregory King quasi un quarto della popolazione inglese vive sotto la soglia di povertà e i vagabondi sono 30’000. Sébastien le Prestre de Vauban sostiene che in Francia un terzo della popolazione vive in miseria.
Se il re è un’emanazione divina, a corte si vive divinamente. Grandi spese e grandi numeri. In Francia al suo servizio vivono circa 5000 persone. In Inghilterra «solo» 2000. Le spese di corte sono la terza voce del bilancio dello Stato dopo le guerre e gli interessi per i debiti.
A corte vivono i cortigiani, già descritti nel 1528 da Baldassarre Castiglione ne Il Cortegiano, che seguono il corpo del Re per sacralizzarlo, dalla nascita alla morte, dall’alba al tramonto. Le corti sono divise in quattro sezioni: casa, camera, scuderia e cappella che accompagnano il sovrano nelle sue funzioni di mangiare, dormire, spostarsi e pregare. Queste sezioni sono guidate dal gran maestro per la casa, dal gran ciambellano per la camera, dal grande scudiere per le scuderie e dal grande elemosiniere per la cappella. Il modello era la corte dei Papi, anche se alcune diversità si possono notare fra quelle di Francia e di Spagna. In Francia il Re ha tutti i sudditi «come compagni», mentre in Spagna non parla mai con i suoi della camera. Il gran maestro e il gran ciambellano trascorrono molto tempo con il sovrano anche se questi di solito predilige il gran ciambellano perché è nella camera che il sovrano «deponeva ogn’aria maestosa per eguagliarsi agli altri uomini».
Fra i cortigiani c’è sempre un artista. Che deve essere colto e capace di intrattenersi con i nobili. Uno di questi è Bernini, dall’aspetto piacevole, intelligente, arguto e con una brillante conversazione. Papa Urbano VIII appena eletto esclama: «Gran fortuna è la vostra, o Cavaliere, di vedere Papa il cardinal Maffeo Barberino, ma assai maggiore è la nostra, che il Cavalier Bernino viva nel nostro Pontificato». Viaggia per raggiungere la Francia da gran signore con un ricco seguito ed è accolto sempre con grandi onori.
Poi Rubens, colto, intelligente, dai modi raffinati, al servizio di Alberto e Isabella nei Paesi Bassi, Vincenzo Gonzaga, Carlo I. Velázquez si lega unicamente alla corte spagnola e ottiene dal Re prima il titolo di usciere di camera, poi di aiutante del vestiario, sovrintendente ai lavori regi, aiutante di camera e infine maresciallo di corte con il compito di sorvegliare il cerimoniale. Gli artisti vengono elevati al rango di nobiltà con il regalo di una collana d’oro. Alberto d’Austria la regala a Rubens; Gregorio XV a Bernini; Giacomo I, Isabella Clara Eugenia e Carlo I a Van Dyck.
Antoon van Dyck è uno dei più ambiti artisti delle corti europee del Seicento. Giovanni Pietro Bellori nelle Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni del 1672 così lo descrive (riporto dalla ristampa anastatica edita da Arnaldo Forni di Bologna nel 2000 senza usare la esse lunga, che sembra una effe, ma quella odierna): «Erano le sue maniere signorili più tosto che di huomo priuato, e risplendeua in ricco portamento di habito, e diuise, perche assuefatto nella scuola del Rubens con huomini nobili, & essendo egli per natura eleuato, e desideroso di farsi illustre, perciò oltre li drappi, si adornaua il capo con penne, e cintigli, portaua collane d’oro attrauersate al petto, con seguito di seruitori». Insomma, un tipetto bello, civettuolo e vanitoso. Katlijne Van der Stighelen – nel catalogo della mostra che i Musei Reali di Torino gli dedicano in questi mesi – dopo aver analizzato le varie biografie sull’artista, da quella di Joannes Meyssens nel 1649 fino a quella di Roger de Piles nel 1699 assieme ovviamente a quella del Bellori, arriva alla conclusione che van Dyck è di bassa statura, chiaro di pelle e rossiccio di capelli, piuttosto timido, dall’aspetto esteriore importante «perché gli piaceva trovare clienti nelle classi sociali più elevate» ed è un «cortigiano» nel contesto inglese alla corte di Carlo I, anche se ha frequentato quelle di Genova, Torino, Anversa e Londra. Tutti sono concordi che sia il migliore ritrattista del periodo.
La mostra torinese è suddivisa cronologicamente in quattro sezioni: la prima è dedicata alla sua formazione e al rapporto con Rubens; la seconda al soggiorno in Italia dal 1621 al 1627; la terza indaga sugli anni alla corte dell’arciduchessa Isabella Clara Eugenia ad Anversa e l’ultima, dal 1632 alla morte nel 1641, alla corte di Carlo I a Londra. Del periodo italiano è il Ritratto del cardinale Bentivoglio eseguito a Roma nel 1623 nel quale Van Dyck mostra la sua predilezione per Tiziano con il rosso del vestito e nel contempo la finezza della trama pittorica ricca di dettagli.
Un altro capolavoro è sicuramente il Ritratto di Elena Grimaldi Cattaneo realizzato durante il soggiorno genovese del 1622. Qui l’elegante signora passeggia nel suo giardino con un fiore in mano mentre un paggetto le copre il volto diafano con un ombrellino rosso.
Fra i ritratti di duchi, marchesi, regine, re, lord, conti, cardinali, principi, abati, contesse, sir, banchieri, arcivescovi, cavalieri, spiccano in mostra le due versioni, fra le tante, de I tre figli maggiori di Carlo I: bambini imbellettati e immerlettati, immobili come bambole, tristi e consapevoli, dipinti con tonalità tenui e bilanciate. A sinistra troviamo Carlo, principe di Galles di 5 anni, al centro Maria di 4 e a destra Giacomo vestito da ragazza come si usava ai tempi per i bambini fino a 2-3 anni per scaramanzia contro la morte prematura dell’erede.
Van Dyck non ha mai raggiunto la qualità estetica e compositiva di Rubens e sicuramente il genere del ritratto non era molto considerato all’inizio del secolo. Il nobile Vincenzo Giustiniani in una delle sue lettere indirizzate all’avvocato olandese Theodor Amayden nel 1610, quella sul discorso sulla pittura, suddivide i modi di dipingere secondo una gerarchia classificata in dodici gradini. Quello più basso è lo spolvero, segue la copia di altri dipinti, il saper disegnare e al quarto posto il ritratto. In seguito il ritratto si affianca alla pittura di storia occupando i primi posti della scala dei valori e per questo i vanitosi nobili del Seicento trattavano gli artisti di corte come principi.
Piccola mostra con solo 45 tele e 21 incisioni, sale anguste e mal illuminate.