I ricordi di Camille e di ognuno di noi

A colloquio con la regista e artista ticinese Bindu De Stoppani, che con Cercando Camille si mette per la seconda volta dietro alla cinepresa
/ 12.02.2018
di Nicola Falcinella

Presentato alla Festa di Roma e recentemente alle Giornate di Soletta, è ora nelle sale Cercando Camille di Bindu De Stoppani, attrice e regista ticinese che vive e lavora a Londra. Dopo aver recitato in due film del premio Oscar Danny Boyle, The Beach e 28 giorni dopo, ha esordito come regista nel 2011 con Jump. Questo è il suo secondo lungometraggio, un road-movie in equilibrio tra commedia e dramma: Camille (Anna Ferzetti) è una giovane donna che cerca se stessa e il rapporto con il padre (Luigi Diberti), anziano inviato di guerra con l’Alzheimer che confonde i ricordi e non la riconosce. Partiranno su un vecchio camper verso la Bosnia in compagnia di un violoncellista avventuroso, cercando di rimettere insieme pezzi di vita.

Bindu de Stoppani, come in Jump tornano la memoria e la ricostruzione di un rapporto tra figlia e padre.
Ci sono temi che mi interessano e altri che escono in maniera inconscia. Su alcuni si ritorna, per riesplorarli, come in questo caso. La relazione tra figlia e padre è importante per me, ci sono cose su cui mi interrogo. Ciascuno vive e ricorda i fatti in maniera diversa e di questo spesso non teniamo conto. In Jump era un voler ricordare, stavolta è il non voler dimenticare.

Qui c’è letteralmente un mettere insieme i pezzi: le fotografie, le tappe del viaggio, gli oggetti del passato.
Di questo mi sono accorta dopo, nello scrivere il film non me n’ero resa conto. Solo facendolo si nota che tornano cose che erano nell’altro, seppure in modo diverso. Ogni oggetto che possediamo ha una propria storia. Amo il vintage e forse questa passione ritorna, con le storie degli oggetti persi e ritrovati.

Questo riguarda anche le persone?
La vita è fatta anche di persone che si perdono, che restano indietro. Andiamo avanti e a volte è facile dimenticare persone incontrate nel passato o che hanno donato qualcosa. E poi c’è il fatto che abbiamo esperienza dei nostri genitori dal momento in cui ci siamo noi: del prima sappiamo poco, a volte ci dimentichiamo di chiedere. Così Camille scopre il padre anche attraverso chi l’aveva conosciuto. 

La protagonista ha paura della malattia del padre, fino a negarla.
Ho fatto numerosi incontri e interviste con malati e con familiari di malati di Alzheimer. Ci sono dinamiche diverse, le persone si rapportano alla malattia in tanti modi. Camille nel film non vuole accettare la malattia. Anche il fratello non la accetta: in un certo senso è facile volerlo mettere in una struttura per anziani, in modo che la malattia scompaia.

Nel film si nota una grande attenzione ai dettagli e alla scelta degli occhiali, della camicia con il collo arrotondato per costruire il personaggio di Camille, che risulta goffa e quasi ancora bambina.
L’indicazione degli occhiali era già prevista in sceneggiatura, doveva essere qualcosa che la separa dal mondo e crea comicità. Ho lavorato molto con Anna Ferzetti per creare il personaggio. Volevo darle un aspetto da bambina, chiusa in se stessa, perbene, che con si azzarderebbe mai a fare delle cose e che si protegge dal mondo. Trovare la camicetta ha aiutato molto Anna a immedesimarsi: da attrice so che i costumi cambiano l’attore.

C’è un bell’affiatamento tra gli interpreti.
Gli attori sono bravi e si sono trovati bene. Ho fatto il casting facendoli lavorare insieme e provando diverse combinazioni. Ferzetti e Diberti si sono trovati subito, hanno creato comprensione e familiarità tra loro. Lavorare con gli attori, per la mia formazione, è ciò che mi viene più facile e mi fa sentire a mio agio, non sono una regista tecnica. In questo film l’aspetto umano era importante.

Nei titoli c’è un ringraziamento al giornalista Fausto Biloslavo, si è ispirata alla figura di qualcuno in particolare per la figura paterna?
Ho fatto ricerche sui giornalisti di guerra, ho letto parecchi libri. Ho avuto diverse conversazioni con Biloslavo e ci sono alcuni elementi ispirati ai suoi racconti, volevo ci fossero cose che possono accadere in certe situazioni. La guerra nell’ex Jugoslavia è stata l’esperienza più turbante per molti giornalisti, ha creato tante memorie, anche per l’essere così vicina e recente. Mi interessava capire cosa vuol dire per un inviato lasciare a casa una famiglia con il rischio di non tornare più. Se ne parla poco, ma anche i giornalisti muoiono in guerra.

Che ricordi personali ha di quel conflitto?
Lo ricordo bene, è stata una guerra vicina e ora ho amici che provengono da quei Paesi. È una situazione dove è difficile dividere i buoni e i cattivi. Per il film ho avuto modo di girare a Mostar e in altri luoghi della Bosnia. Ho visto come ci sono ancora i segni e le ripercussioni della guerra, non mi aspettavo che la memoria fosse ancora tanto presente.

Anche nel secondo film ha voluto girare in Ticino.
Sono ticinese e mi fa piacere girare qui. C’è un bel gruppo di professionisti con cui lavoro bene, e dunque è un ritorno in famiglia... anche con la Rsi che mi ha sempre sostenuto. Ora spero che il pubblico si incuriosisca, venga a vedere il film e creda nel cinema svizzero-italiano.