I problemi della fiction ticinese

Si è appena concluso uno dei più importanti appuntamenti cinematografici della Svizzera
/ 04.02.2019
di Nicola Mazzi

Il Ticino, a livello numerico, è stato ben rappresentato alle 54esime Giornate di Soletta che si sono tenute la scorsa settimana. Diversi i film e i cortometraggi della Svizzera italiana presenti nei vari programmi della rassegna dedicata alle produzioni elvetiche. Alcuni già noti e visti, come il documentario di Niccolò Castelli su Lara Gut (Looking For Sunshine), quello dedicato a Fabio Pusterla di Francesco Ferri – passato nei giorni scorsi in TV– (Libellula gentile), o ancora quello di Fulvio Bernasconi (Dick Marty, un grido per la giustizia, visto nei mesi scorsi alla trasmissione «Storie»), altri invece inediti. Tra questi ultimi: Barbara, adesso; l’atteso film di Alessandra Gavin-Müller.

Proprio su quest’ultima produzione voglio soffermarmi. Perché, oltre a essere stata presentata per la prima volta a un pubblico, mi ha messo di fronte – ancora una volta, purtroppo – alla delicata situazione in cui si trova la fiction ticinese.

Alla base del film c’è una bella idea, di grande attualità: una madre abbandona il marito e la figlia di tre anni perché non si sente più adeguata a quel ruolo. In lei si è spento l’istinto materno. Inizialmente Barbara si sente sollevata, più libera, pensa di aver ritrovato la sua vita. Arriva pure a negare, con il collega di lavoro, di essere mai stata madre. Ma col tempo emergono anche i sintomi della fragilità di cui non riesce a liberarsi. Come il non poter fare a meno di suonare alla porta della madre, anche se questa non le risponde mai.

Il punto di partenza è davvero intrigante. Ma il resto non riesce a essere all’altezza della promessa narrativa. I problemi di questo film, ma anche di altre fiction ticinesi viste di recente, sono diversi, ma quello più importante è legato alla sceneggiatura. Alla scrittura della storia e a come essa viene messa in scena. La tensione narrativa, che dovrebbe essere la base di un buon racconto, quella magia che ti tiene incollato allo schermo per un’ora e mezza, in questa produzione ha dei cali abbastanza evidenti, sia nello sviluppo tematico, sia nelle relazioni che Barbara costruisce con le persone che le stanno accanto.

Certo, abbiamo alcuni lodevoli tentativi con i quali la regista riesce a compiere questa operazione, per esempio nel rapporto tra Barbara e il figlio della vicina: se al primo incontro lei lo fa sedere su una sedia fuori casa in modo da non essere disturbata mentre lavora, la seconda volta che lo ospita gli dà una sedia in cucina, vicino a lei. Peccato che siano poche ed estemporanee queste soluzioni. E il tutto si perde in una vicenda troppo frastagliata, che passa senza una vera ragione dalla storia di Barbara a quella del marito con la figlia, soli a casa e alla ricerca di un nuovo equilibrio famigliare. Così come non c’è uno sviluppo nella storia tra lei e il collega di lavoro. Solo qualche frase, qualche accenno a una possibile relazione.

Mi si potrebbe obiettare che è proprio quello che voleva la regista: far capire allo spettatore il disorientamento della sua protagonista, persa in relazioni che non riesce a costruire e delle quali non le importa molto, smarrita in una solitudine dalla quale non riesce a uscire. Ma anche se così fosse, resterebbero i problemi di partenza. Perché questa solitudine non viene sufficientemente messa a fuoco, analizzata, capita, indagata e spiegata. Lo spettatore resta spaesato; non riesce a capire dove si vuole andare a parare e quale sia la direzione che vuole prendere la regista.

Problemi che emergono anche nella recitazione. Alla fine, i personaggi che appaiono più naturali e quindi più credibili, sono il padre e la figlia, proprio perché non recitano, vivono la loro quotidianità come se non ci fosse la camera a filmarli. La provenienza teatrale, della pur brava protagonista, è abbastanza evidente sia nei momenti introspettivi sia nella scena in cui dà sfogo alla sua rabbia e urla tutto il suo malessere al mondo. La mancanza di una gamma di grigi e lo spazio lasciato al bianco e al nero (tipici del teatro e meno del cinema) non aiutano a identificarsi con il personaggio.

Così come non aiuta la mancanza di quella necessaria abilità e grazia nel costruire interessanti nessi logici, quelli alla base di una narrazione che fonda le radici sul concetto di causa-effetto.

Meglio, invece, un corto ispirato alla tragica vicenda del 2017 quando un giovane emigrato, che si era rifugiato sul tetto di un treno, morì alla stazione di Balerna. Le prix du ticket di Mariama Balde riesce, in modo chiaro e semplice, a descrivere il fatto, creare legami credibili tra i personaggi e a suscitare un’emozione in chi lo guarda. Forse bisognerebbe ripartire da questo piccolo film. Forse, come si dice nello sport, bisogna riscoprire i fondamentali e tra questi la sceneggiatura.

La rassegna si è conclusa con il Premio del Pubblico assegnato al documentario Gateways to New York di Martin Witz prodotto dalla ticinese Ventura Film e dalla RSI, mentre il Premio di Soletta è andato al documentario Immer und Ewig di Fanny Bräuning.

Sempre a Soletta, sono state rese note anche le Nominations per i Quartz, gli Oscar del cinema nazionale. Wolkenbruch, il film svizzero di maggior successo dell’anno, ha ottenuto cinque candidature. Il film di Simon Jaquemet, Unschuldige, è invece presente in quattro categorie. Mentre, a dimostrazione di quanto detto, nessun ticinese è in lizza per ricevere un riconoscimento nazionale. I premi saranno attribuiti il 22 marzo a Ginevra.