Torino, fine anni Sessanta: sono gli anni della contestazione, ma anche del rinnovamento dei linguaggi artistici con l’affermarsi del gruppo dell’Arte povera, secondo la definizione del critico Germano Celant, movimento che riportava gli artisti italiani alla ribalta internazionale. In corso Principe Oddone al numero 88 c’è lo studio di Alighiero Boetti, giovane torinese di famiglia aristocratica approdato all’arte da autodidatta dopo aver abbandonato gli studi di economia. Nel 1967 aveva già tenuto la sua prima personale alla galleria Christian Stein. Autodidatta è anche il poco più che ventenne Salvo (nome d’arte per Salvatore Mangione) che condivide l’atelier con Alighiero. Trasferitosi con la famiglia a Torino nel 1956 dalla provincia di Enna, Salvo fino a qualche anno prima si manteneva dipingendo ritratti, paesaggi e copie da opere di Rembrandt e Van Gogh. La sua prima personale è nel 1970 alla galleria di Gian Enzo Sperone, punto di riferimento per i «poveristi». Nelle fotografie della sezione «cronache private» vediamo i due complici sorridere, suonare e fumare, davanti a opere divenute poi famose.
Vivere lavorando giocando è la frase scelta come titolo della mostra allestita al LAC, che grazie a 150 opere documenta l’amicizia fra questi due protagonisti dell’arte italiana del Secondo Novecento. Una citazione di Salvo – spiega la curatrice Bettina della Casa – che così riassumeva quel periodo di intenso scambio artistico e intellettuale con Boetti, non scevro di uno spirito di sana competizione. Non a caso sulla copertina del catalogo, arricchito da testi e documenti inediti, campeggia una fotografia che vede Salvo e Boetti giocare a braccio di ferro.
L’allestimento della mostra, pur evidenziando rimandi e affinità, mantiene le distanze, creando itinerari paralleli che documentano con rigore filosofico gli sviluppi del percorso di Salvo e Boetti, anche dopo la loro separazione, che coincide con il trasferimento di Boetti a Roma, nel 1972, quando – come racconta il gallerista Massimo Minini – «la vita divide, i due amici per la pelle crescono, ognuno ha i propri interessi».
Fino a quel momento temi e modalità espressive si intrecciano: il tema dell’immagine del sé, inteso come doppio per Boetti (Gemelli), mentre Salvo lo interpreta come moltiplicazione del sé, che passa da un ruolo all’altro (Benedizione di Lucerna), non senza una vena ironica e dissacratoria, che si ritrova nella celebre serie delle «lapidi», su cui, quali epigrafi, si ritrovano frasi autocelebrative come «Amare me» e «Io sono il migliore». Anche Boetti incide frasi, o meglio le ricama nelle trame dei suoi primi arazzi («Ordine e disordine» o «Segno e disegno»), in cui esprime già la fascinazione per la permutazione e le possibilità combinatorie offerte dalla parola. Da veri artisti concettuali praticano la tautologia: ne è un esempio il ciclo di opere che Salvo realizza giocando con le lettere del suo nome tracciate con i colori del tricolore italiano; per Boetti, la serie dei colori industriali (ciò che si vede, è ciò che è menzionato) e i «Cimenti».
Anche il rapporto con il tempo e con lo spazio per Salvo diventa una nuova declinazione del suo gioco di mitizzazione del sé; dai fotomontaggi con il suo volto sostituito a quello dei protagonisti di alcuni scatti storici, ora il suo volto si ritrova sostituito a quello dell’eroe di soggetti classici dell’iconografia come San Giorgio e il drago. Se Salvo riflette al tempo della storia dell’arte, aiutato dalla sua prodigiosa memoria e da una conoscenza enciclopedica, Boetti indaga invece il tempo che scorre – quello segnato dai contatori, dagli orologi e dai calendari. Se la Sicilia è lo spazio di Salvo, Boetti guarda al mondo, cominciando a realizzare quelle «mappe» che diventeranno delle icone, ricamate da donne afghane. E qui per Alighiero comincia la pratica della delega alla realizzazione, con la quale l’autore si sottrae a se stesso, come per l’opera quasi programmatica – a cominciare dal titolo – Mettere al mondo il mondo (1973), una delle prime opere in cui si utilizza la penna a biro (quale altro strumento più anonimo della Bic?), con un tratteggio monocromo che riempie i due fogli giustapposti, eseguiti da un uomo e da una donna seguendo la regola compositiva inventata dall’artista.
Salvo invece torna alla pittura, in anticipo sui tempi della Transavanguardia; dapprima con una serie che rivisita celebri soggetti di maestri antichi e in seguito paesaggi che rimandano alla classicità (Rovine, 1976) in un’ambientazione quasi metafisica, fino ai più enigmatici e abbaglianti paesaggi degli anni Ottanta «dinanzi ai quali – scrive l’artista e amico Giulio Paolini – ci si veniva a trovare spaesati (…) attirati in un’ottica ancora da scoprire». Anche Boetti «scopre» i colori a Roma, ma con le sue opere pensa il presente: Anno 1988 testimonia ancora una volta la critica all’autorialità e la sua bulimia per le immagini, in questo caso le immagini d’attualità ricalcate da copertine di riviste internazionali. Il mondo – o meglio l’immagine della molteplicità mondo – sembra essere catturato anche nelle trame multicolori degli arazzi degli ultimi anni (Everything). Per completare questo sguardo ravvicinato su due personalità artistiche per certi versi enigmatiche, allo Spazio –1 è stata allestita in parallelo un’esposizione che documenta il contesto artistico a Torino a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, con una selezione di opere significative – provenienti dalla Collezione Olgiati ma non soltanto – dei protagonisti di quel periodo: da Paolini a Merz, da Fabro ad Anselmo, da Penone a Pistoletto, da Zorio a Gilardi.