State per essere presentati ai genitori della vostra fidanzata. Niente può essere lasciato al caso. La mamma vi fa accomodare sul divano (che, a occhio e croce, deve avere il suo bravo valore sul mercato antiquario), rivestito di stoffa verde pisello. La gentile signora, che sembra avervi preso subito in simpatia, insieme a una tazza di tè vi offre un bignè alla crema. Già un po’ rilassati, decidete che potete allentare ulteriormente la tensione e tuffarvi senza pudore nella benedetta bontà. Tutto accade poi in un battito di ciglia: nell’ordine seguente, aprite la bocca, avvicinate il bignè, decidete di dare solo un morso piccolo come ordina il bon ton, addentate la preda e … troppo tardi ricordate che l’inserimento da parte del pasticciere della gloriosa crema comporta per il bignè una cicatrice che non si rimargina mai completamente. La pressione del morso induce così la crema a scappare dall’unico pertugio accessibile. Con un imbarazzante rumore di sfuggente morbidezza alla vaniglia, la crema casca. Sul prezioso divano. E addio suocera amorevole.
Una sensazione di figuraccia di questo tipo può anche appiccicarsi addosso per tutta la vita. Una sensazione forte, molto simile a quanto si prova ad esempio quando ci si accorge di avere spedito un messaggio con lo smartphone (o un’e-mail) con troppa fretta, e ci si rende conto troppo tardi di aver permesso alla nuova tecnologia di sostituire una vostra parola con una tutta sua. Quasi sempre fuori posto. Molto fuori posto.
Agli albori della telefonia il diabolico strumento si chiamava T9. Ora è molto più «istruito», il suo vocabolario è potenzialmente infinito. Sempre pronto a mettervi alla prova (e a fregarvi). Se il messaggio resta fra amici, il danno è in genere limitato: l’innocente «vieni a mangiare una pizza?» risulta più logico per il telefonino (non si sa perché) come «vieni a mangiare una puzza?». Qui è la vostra volontà che deve imporsi – mai dargliela vinta – a meno appunto che la fretta e la distrazione abbiano già fatto il danno.
Lo Spiritello Correttore si nasconde tuttavia anche là dove il campo rischia di essere davvero minato, come nei noti programmi di elaborazione di testi su computer: qui la faccenda si fa decisamente più seria. Giornalisti e addetti alla comunicazione ne sanno qualcosa.
Tempo fa il prestigioso inserto culturale di uno storico quotidiano italiano (non facciamo nomi, per scaramanzia o per timore di un karma pettegolo che si rivolti contro) è scivolato su una buccia di banana imbarazzante: tutto fila liscio nell’articolo, ma una didascalia, minuscola e poco appariscente, al posto della parola «carcere» riporta un verbo con desinenza in – are, sempre con la «c» iniziale, ma normalmente utilizzato per descrivere secondo il gergo volgare una funzione corporea quotidiana. Evidentemente nessuno se ne è accorto prima del «visto si stampi» e certo possiamo immaginare come si sia sentito il giornalista a frittata ormai fatta. O a crema pasticcera ormai sul divano Luigi XVI. La fretta non è mai amica della lingua. Ma forse dell’intelligenza artificiale, quello sì. Diabolico.