www.rsi.ch/jazz
 

I desideri di Bill e il country del vecchio John

Al Teatro di Chiasso il progetto musicale di Frisell e della Haden, dedicato alle grandi colonne sonore degli anni 60 e 70, mentre Scofield pubblica un nuovo album
/ 31.10.2016
di Alessandro Zanoli

Sono tempi strani per il jazz. Si è sempre sostenuto che questo genere musicale fosse aperto alle più vari forme di contaminazioni stilistiche, alle influenze più eccentriche. Anzi: si ritiene generalmente che proprio grazie alla sua capacità di cercare nuove ispirazioni il jazz possa rigenerarsi, trovare nuova linfa e vitalità. Ma come la mettiamo quando uno dei maggiori chitarristi oggi in circolazione, John Scofield, dedica il suo ultimo album, Country for Old Men alla musica country?

Ci si ritrova lì con le cuffiette in testa (perché la musica ormai è tutta nello smartphone) ad ascoltare Red River Valley. Per intenderci: in italiano il primo verso della canzone dice «Quella notte laggiù nella valle» o qualcosa del genere. Ci siamo capiti. Ci si ritrova dunque lì, un po’ perplessi, a cercare di giustificare e capire un simile spreco di energia: al basso Steve Swallow, alla batteria Bill Stewart, all’organo Larry Goldings: ma è pur sempre «Quella notte laggiù nella valle...». E non si sa bene se sia un esercizio di ironia trasversale o di acrobazia sulle corde (niente a che fare, tra l’altro, con la versione stupenda che Cassandra Wilson ne aveva dato anni fa).

E come la mettiamo se un altro eccezionale chitarrista contemporaneo come Bill Frisell decide di trarre ispirazione per il proprio nuovo progetto dalle colonne sonore di film e sceneggiati televisivi degli anni 60-70? Che effetto fa sentire uno dei massimi armonizzatori e improvvisatori oggi in attività affrontare il tema ormai autoparodistico e galoppante di Bonanza?

Il disco su cui questo progetto è approdato, When You Wish Upon a Star, è uscito da qualche mese e abbiamo avuto modo di ascoltarlo molto bene, e con un certo interesse. Non fosse altro perché tra i membri della band che lo compone c’è la cantante americana Petra Haden. Il cui nome non avrà particolare risonanza nelle orecchie degli appassionati, sennonché la signora si trova, eh sì, ad essere la figlia del grande Charlie Haden. 

Appassionata di colonne sonore e di cinema, la Haden ha già pubblicato un disco sull’argomento, intitolato Petra Goes to the Movies. E proprio la passione che nutre per la musica da film ha fatto sì che Frisell la scegliesse quale solista, per rendere il fascino vocale di alcune colonne sonore che hanno caratterizzato la sua adolescenza: si va da The Shadow of Your Smile a Moon River, da You Only Live Twice a Il Padrino, in una carrellata da un certo punto di vista assai intrigante. 

Il progetto (esattamente come quello di Scofield) si muove su un crinale molto ripido: scivolare nella superficialità sembra molto facile quando si maneggiano brani sentiti e strasentiti, fatti e strarifatti migliaia di volte da centinaia di solisti. All’interprete coraggioso (e Sco e Bill lo sono) si chiede di impegnarsi, di cavare il meglio dalla propria vena creativa, di dare fondo alle riserve di trucchi del mestiere. 

L’impressione è, purtroppo, che nessuno dei due ce l’abbia fatta. Il concerto a cui abbiamo assistito la scorsa settimana a Chiasso, in cui Bill Frisell e Petra Haden ci hanno presentato dal vivo la loro creatura filmico/musicale, si è rivelato ancora meno graffiante e memorabile dell’album su cui è nato. Grande musica, per l’amor del cielo: Frisell ha un fraseggio stupendo, ascoltarlo è una lezione di armonizzazione di altissimo livello. È uno dei pochi che sa tenere gli ascoltatori col fiato sospeso, che sa agganciare al filo delle sue scorribande sulle corde anche gli ascoltatori più inesperti. La Haden era sofferente per un problema alla gola e quindi si è mantenuta in limiti vocali più che ragionevoli, vista la sua situazione. Il batterista Rudy Royston e il contrabbassista Thomas Morgan, due giovani scoperte di Frisell, sembrano modellini in scala 1/1 di Charlie Haden e Paul Motian, talmente maturo e incisivo è il potenziale che sprigionano.

Ma When You Wish Upon a Star rimane un po’ lì, sospeso su delle buone intenzioni, delle belle intuizioni. Non basta l’ingenuo e schietto, tutto sommato semplice desiderio di riportare quei brani il più vicino possibile alla sorgente emozionale originaria, cercando di riprodurre lo stato d’animo con cui si erano ascoltati la prima volta, per trasformarli.

Lo stesso discorso vale per l’album di Scofield: la rincorsa all’emozione non è garanzia di buona musica. E finisce per apparire solo una comoda scorciatoia per arrivare al pubblico.