I ciliegi di Ljuba in bianco e nero

L’ultima commedia di Cechov messa in scena da Lev Dodin nell’ambito degli appuntamenti dedicati a Giorgio Strehler nel ventennale della morte
/ 04.12.2017
di Giovanni Fattorini

Erano due gli aspetti che più vistosamente caratterizzavano Il giardino dei ciliegi che Lev Dodin portò a Milano nel 1998: uno era l’atmosfera notturna e a tratti luttuosa che avvolgeva la casa e il giardino di Ljubov Andreevna Ranevskaja; l’altro, il contrasto fra la recitazione realistica di impronta stanislavskiana e la scenografia accentuatamente antinaturalistica, specie nella zona occupata dal ciliegeto, con le piante distribuite in modo irregolare dietro altissime vetrate disposte come paraventi, in modo da produrre effetti di vetrofania e di labirinto specchiante, che trasformavano il dato naturalistico in un’immagine stilizzata, e dunque assai lontana dai modi espressivi del celebre allestimento stanislavskiano del 1904.

Nello spettacolo del 2014 in scena per pochi giorni al Piccolo Teatro di Milano (primo appuntamento del programma di iniziative dedicate a Giorgio Strehler nel ventennale della morte), un enorme telo bianco listato a lutto separa il proscenio dal resto del palcoscenico immerso nel buio, fungendo da schermo per la proiezione di un filmato in bianco e nero (immagini di ciliegi in fiore sotto cui si muovono persone elegantemente vestite), girato forse da Lopachin prima che Ljuba, in seguito alla morte del marito e all’annegamento del figlioletto Grisha, decidesse di partire per Parigi, dove ha vissuto per cinque anni e da dove è appena tornata, lasciando un amante per il quale ha dilapidato il patrimonio (ragion per cui si rende necessario vendere la tenuta) e che le scrive chiedendole di tornare.

Più che a ridestare nella mente e nel cuore di Ljuba la memoria nostalgica del tempo perduto, le immagini che compaiono sullo schermo listato a lutto sembrano destinate a suscitare negli spettatori un’inquietante sensazione di «ritorno del morto», simile e forse anche più forte di quella che Roland Barthes diceva di avvertire davanti a un ritratto fotografico (analogon del reale che porta inscritta la morte anche quando il soggetto fotografato è ancora in vita). Catturate dalla macchina da presa, le persone diventano infatti figure immateriali: spettri, fantasmi che possono ripetere all’infinito ciò che è avvenuto una volta sola.

Diventano immateriali anche i personaggi della commedia allorché lasciano il proscenio e la platea, e sollevando il telo bianco entrano nello spazio buio dove la luce di un proiettore li trasforma in sagome di un teatro d’ombre. Il telo-schermo listato a lutto – che è la più importante invenzione dello spettacolo – manifesta così, compiutamente, il suo valore di simbolo: il che può dispiacere, come poteva dispiacere, nello spettacolo strehleriano del 1974, l’armadio troppo scopertamente simbolico di Ljuba, da cui erompeva una polverosa valanga di oggetti infantili. Fortemente simbolica è anche l’immagine finale del telo-schermo-sipario che cadendo mette il vecchio servitore Firs – abbandonato da tutti nella casa vuota e chiusa – davanti a un’enorme parete senza spiragli, fatta di travi ricavate dai tronchi abbattuti dei ciliegi. (Poco prima, Ljuba e il fratello Gaev se ne erano andati portando con sé le pellicole con le fantasmatiche immagini in bianco e nero del loro irrecuperabile passato).

Memore delle lamentele di Cechov riguardanti la tonalità troppo uniformemente seria, troppo grave della messinscena di Stanislavskij (a proposito della quale ebbe a dire: «Non ho scritto un dramma, bensì una commedia, e a tratti una farsa»), Dodin ha saputo creare momenti di leggerezza e persino di allegria. Ma l’atmosfera dello spettacolo non è complessivamente meno cupa, notturna e luttuosa di quella che caratterizzava l’allestimento del ’98.

Lo sguardo del regista è partecipe ma non fa sconti a nessuno: né agli esponenti di una nobiltà terriera incapace di tenere il passo coi tempi e prossima ad essere travolta dalla Storia, né a un utopista inconcludente come Trofimov, né al nuovo ricco Lopachin (stupendamente interpretato da Danila Kozlovskij), che nello spettacolo adombra in qualche modo la figura dell’odierno neo-capitalista russo, e che per la sua energia e la sua contraddittorietà diventa – come nello spettacolo del ’98 – il personaggio principale della commedia, mettendo in secondo piano la figura di Ljuba, interpretata dalla bella e brava Ksenia Rappoport, diversissima dalla Valentina Cortese che nel ’74 mi afflisse con il suo birignao, il suo bambineggiare, il suo scarruffarsi i capelli, il suo agitare le mani verso l’alto, come se stesse per esalare l’anima da un momento all’altro.