«L’episodio che, più di qualsiasi altro, gli sembrava indicare che la fine del mondo è prossima, è il caso spaventoso verificatosi nell’isola di Gotland. Laggiù una mucca, emettendo lunghi, strazianti muggiti, ha partorito un vitello che ha la fronte ornata di piccoli riccioli, e una testa da cui spiove, in ciocche massicce, una capigliatura lunga circa mezzo metro, acconciata a canne d’organo, alla maniera di Marie Angélique de Scorailles de Roussille duchessa di Fontanges. Alla maniera cioè dell’amante di Luigi XIV».
Per risolvere il caso, lo strano caso, del Favorito Johann Ernst Biren, il piccolo scrivano dalla bellezza molle e maestosa che mangiava la carta dei documenti, impiegato alla corte settecentesca dello svedese Carlo XII, furono sentiti molti pareri e convocato tra gli altri il vescovo di Brumsbo Jesper Swedberg, esperto nell’interpretazione di enigmi ed eventi straordinari, che prospettava la fine dell’umanità e del pianeta sulla base dell’attribuzione di un esito rovinoso a qualsiasi cosa sfuggisse a una ragionevole spiegazione.
Servì a poco, perché Biren, per quel suo particolare e irresistibile appetito che coinvolse volgari scartafacci ma anche per esempio il testo di un trattato tra il re e lo Zar di tutte le Russie della cui redazione era stato incaricato, fu processato e condannato alla morte per decapitazione. A questa sfuggì per raggiungere il ducato di Curlandia nell’odierna Lettonia. E qui sedusse (era bellissimo, già detto) la duchessa Anna, che poi sposò, diventando egli stesso duca di quelle terre. Parte della vita di Biren è raccontata in una parentesi narrativa delle Illusioni perdute di Balzac; la storia di Biren, di Balzac che la racconta e qualche altro dato (autentico o inventato, chi lo sa?) è nella nuova edizione, da poco rimasticata, di Il mangiatore di carta di Edgardo Franzosini.
Spiega Roland Barthes che quando si leggono i classici, soprattutto quelli francesi e soprattutto quelli dell’Ottocento, bisogna prestare attenzione ai passi trascurati, ai capitoletti, apparentemente minori e riempitivi come questo; perché spesso essi nascondono «un segreto molto più grande e profondo», che non può essere narrato a quel punto del racconto perché il romanzo ha altri destini e altre priorità, ma che merita forse un rinvio, un’esplosione, un’altra relazione, un racconto a sé, addirittura un libro, come in questo caso. Biren è personaggio autentico ma non si sa tutto della sua vita, come se fosse una figura inventata; diventa insomma una figura letterariamente «aumentata». Balzac non lo richiama per caso, perché lui stesso era ossessionato sopra ogni cosa da due pratiche, la scrittura e il consumo di cibo: a proposito di quest’ultima, l’editore Edmond Werdet lo descrive come continuamente in preda a un’avidità incontrollata e aggiunge estenuanti elenchi di cibi e portate e osserva mesto che «Balzac inghiottiva ogni cosa senza misericordia».
Il libro di Edgardo Franzosini è narrativamente perfetto per tre motivi: la cornice ipernarrativa balzachiana, il ragionamento sull’opera letteraria e sui suoi autori, una inconsueta abilità nelle descrizioni di luoghi e persone. La stessa storia dello scrivano che si ciba di parole e delle sue parole è la storia di un «cercatore di infinito» e, in una vertigine infinita, questo libro è bello perché è supremamente un libro che racconta di un libro che racconta di libri. Quando durante la lettura di un classico arriviamo dalle parti di un quadretto-cornice narrativo che ci apre come lo spiracolo di una vita, un biografema, sappiamolo, fermiamoci.
«Una donna di nome Ester Jonsdotter che viveva in buona salute nella regione del Vaestmanland ha preso all’improvviso, di certo per l’influsso di qualche tenebrosa intelligenza, a parlare in tutte le lingue del mondo. Dalla vergogna ora vive in un bosco, all’interno del tronco cavo di un albero, nutrendosi di funghi».