In occasione dell’apertura del cantiere dell’ultimo lotto del progetto di Mario Botta per il Teatro alla Scala, è stata allestita una mostra dal titolo intrigante La magnifica fabbrica, 240 anni del Teatro alla Scala da Piermarini a Botta. Aperta fino alla fine di aprile, la mostra merita una visita, soprattutto per chi è interessato alla vicenda storica e al destino dei beni culturali, in quest’epoca nella quale assistiamo spesso a pratiche di manomissione delle qualità sopravvissute al logorio del tempo e, insieme, a proposte di protezione di opere che invece ne sono prive. È un’occasione per riprendere il filo di una riflessione necessaria, che abbiamo iniziato parlando del Palazzo del Cinema di Locarno. Il lungo titolo della mostra è intrigante perché anticipa tutti i contenuti dell’esposizione: la storia dei progetti (da quello originario di Giuseppe Piermarini del 1778, all’ultimo intervento di Mario Botta) e l’estensione temporale delle attività di questa fabbrica, che continua ad essere magnifica dopo 240 anni.
Nonostante l’allestimento non sia eccellente, perché costretto negli spazi angusti del Museo della Scala – ricolmi di memorie e documenti, ma inadatti ad un esposizione molto frequentata – e che il contenuto dei pannelli che illustrano la vicenda sia ripetitivo e scritto in modo troppo divulgativo – più rivolto al turista straniero che all’appassionato del teatro – la mostra riesce tuttavia a trasmettere un’informazione importante, e ai più sconosciuta: che del manufatto costruito dal Piermarini non rimane oggi più nulla. A parte la radicale ricostruzione postbellica, prima di allora ogni parte del teatro e degli importanti spazi complementari è stata più volte sostituita o costruita ex novo. Anche la stessa immagine pubblica è completamente mutata nel tempo: si pensi, per esempio, che il colore prevalente dei rivestimenti in tessuto dei palchi e degli affreschi del palco arciducale era l’azzurro, e che solo alla fine dell’800 è diventato il rosso.
Il fenomeno della permanenza dei beni culturali è di una complessità che impone diverse riflessioni. In questo caso, è la straordinaria corrispondenza, continuata nel tempo, tra la qualità architettonica degli spazi (del teatro vero e proprio, formato dalla sala, dai luoghi di accoglienza, dal palcoscenico) e la qualità dell’attività culturale che vi è stata esercitata (la musica e le messe in scena) che ha determinato la speciale resistenza del manufatto, nonostante le rilevanti trasformazioni. Anche il ruolo della sua architettura nella storia della città è stato importante, ed è soprattutto su questo che Mario Botta ha fondato le ragioni del suo progetto. Un tempo, piazza della Scala non esisteva, la cortina edificata di via Manzoni continuava anche davanti al teatro, cosicché soltanto l’avancorpo della galleria delle carrozze rompeva l’allineamento dei fronti, segnalando l’eccezionalità dell’edificio pubblico. Il punto di vista del passante era, stretto quanto la sezione della strada, e occultava le vaste coperture, sopra le quali sono stati costruiti nel tempo diversi e disordinati volumi di servizio. Il lavoro di Botta, che ha previsto (oltre al nuovo palcoscenico) la sostituzione di tutti gli edifici costruiti intorno agli spazi dello spettacolo, è stato finalizzato proprio a mettere ordine nel paesaggio urbano. Anche chi a Milano non condivide il forte carattere del linguaggio dell’architetto ticinese, conviene sull’esito positivo del suo lavoro, nel senso che la sua opera stabilisce una continuità con le forme settecentesche, dimostrando che la cultura architettonica autenticamente contemporanea è capace di stabilire relazioni dialoganti con quelle più antiche. E che questo può avvenire quando il progetto riconosce le qualità spaziali preesistenti e contribuisce alla loro permanenza.
A questo proposito, ultimamente le pagine culturali dei quotidiani italiani si sono riempite di commenti dedicati ad un’altra vicenda architettonica, quella dell’ampliamento del Palazzo dei Diamanti di Ferrara, il cinquecentesco edificio di Biagio Rossetti, al centro della cosiddetta addizione erculea della città romagnola. È stato Vittorio Sgarbi, il vivace polemista dal pensiero ultraconservatore (lo stesso Sgarbi che da viceministro promosse diversi anni fa il mandato a Botta per la Scala), a denunciare come un delitto il progetto di costruzione di un piccolo edificio, progettato dallo studio romano Labics, nel giardino del palazzo. Non si tratta di un ampliamento, ma di un edificio autonomo, un porticato quasi trasparente sorretto da sottili pilastri, che richiamano la James Simon Gallery costruita da David Chipperfield a Berlino davanti al Neues Museum. Esito di un pubblico concorso, organizzato dal comune di Ferrara insieme alla Soprintendenza ai Beni Culturali, l’opera si inserisce nel contesto monumentale stabilendo, con il suo linguaggio semplice e chiaro, una relazione positiva con il bene culturale. Il nuovo fabbricato è destinato a fornire gli spazi di accoglienza e di servizio indispensabili per la fruizione pubblica del museo ospitato nel palazzo. Il polverone suscitato è stato tale da indurre il Ministro dei Beni Culturali – membro di un governo che non si distingue per favorire la cultura – a contraddire i suoi funzionari e a negare l’autorizzazione. Il confronto con la cultura del nostro tempo terrorizza chi propaganda un cambiamento che in realtà si rivela un pesante arretramento civile.
Il Teatro alla Scala e il palazzo dei Diamanti sono beni di valore indiscusso, e le loro vicende, dall’esito diametralmente opposto, indicano come la questione centrale nelle pratiche di tutela e valorizzazione dei beni culturali antichi è sempre quella della relazione con la cultura contemporanea. È un confronto che non si può eludere e che può produrre risultati eccellenti o fallimentari, a seconda che siamo capaci o meno di riconoscere le ragioni della permanenza del bene, della sua resistenza al tempo, facendole diventare il tema del nuovo progetto.