Dove e quando
Antonello da Messina. Dentro la pittura. A cura di Giovanni Carlo Federico Villa. Palazzo Reale, Milano. Fino al 2 giugno 2019. Catalogo Skira, euro 40. www.mostraantonello.it

Antonello da Messina, Annunciata, 1475-1476, olio e tempera su tavola, 45 x 34,5 cm (Galleria Regionale di Palazzo Abatellis, Palermo)

Antonello da Messina, Ritratto d'uomo (Ritratto di ignoto marinaio), 1470 ca., olio su tavola di noce, 30,5 x 26,3 cm (Fondazione Culturale Mandralisca, Cefalù – PA)


Grammatica fiamminga e sintassi italiana

Antonello da Messina a Palazzo Reale di Milano
/ 01.04.2019
di Gianluigi Bellei

Di Antonello da Messina sono giunte sino a noi poche notizie, soprattutto dopo il catastrofico terremoto di Messina del 28 dicembre 1908 che, oltre a fare centomila vittime, distrusse quasi tutti i documenti d’archivio. Figlio di Giovanni de Antonio, Antonio de Antonio, conosciuto poi come Antonello, muore a Messina fra il 14 e il 25 febbraio 1479. Questo perché il 14 febbraio dello stesso anno magister Antonio de Antonio pictor detta il proprio testamento al notaio Antonio Mangianti.

Vasari nelle Vite scrive che alla sua morte Antonello ha 49 anni e quindi si deduce che sia nato probabilmente intorno al 1430. Antonello è ricordato soprattutto per l’introduzione in Italia del metodo di pittura a olio imparata dai fiamminghi. È il solito Vasari a raccontarlo incappando in una serie di imprecisioni. La prima, dando la paternità della scoperta della pittura a olio a Giovanni da Bruggia (Jan van Eyck, 1390/1395-1441).

È risaputo che già nell’antica Grecia come a Roma si usava l’olio di lino. Vitruvio scrive di olio a scopo pittorico misto a colle e cera. Anche Plinio ne parla e Teofilo nel Medioevo nel Diversis Artibus scrive di olio per lavorare su tavola. Così come Pietro di Sant’Andemario nel De coloribus faciendis. Anche Cennino Cennini nel Trattato di pittura parla del modo di trattare i colori a olio. Van Eyck, infine, ne è stato il perfezionatore. La seconda riguarda il viaggio di Antonello nelle Fiandre a imparare dallo stesso van Eyck la tecnica della pittura a olio. «Quest’arte condusse poi in Italia Antonello da Messina» scrive Vasari «che molti anni consumò in Fiandra, e nel tornarsi di qua da’ monti fermatosi ad abitare a Venezia la insegnò ad alcuni amici…».

Orbene, se Antonello nasce nel 1430 e van Eyck muore nel 1441 appare evidente che il primo non può essere andato nelle Fiandre a 11 anni. Lo sviluppo dell’arte fiamminga avviene a Napoli e a Genova con Alfonso V d’Aragona che acquista opere di van Eyck e Roger van der Weyden. L’umanista Pietro Summonte (1453-1526) dice in una lettera del 1524 al Michiel sulle arti a Napoli che Antonello si forma presso la bottega napoletana di Colantonio, probabilmente fra il 1445 e il 1455, che è a contatto con la pittura fiammingo-provenzale. Lo stesso Summonte scrive che Colantonio oltre a copiare un San Giorgio di van Eyck aveva «una gran destrezza in imitar quel che voleva, la quale imitazione ipso avea tutta convertita in le cose di Fiandra». Da qui probabilmente il confronto fra Antonello e Petrus Christus di Bruges (1410-1475/1476), allievo di van Eyck, la cui pittura è simile a quella del messinese.

In che cosa consiste la rivoluzione fiamminga? Nel saper vedere le cose della realtà nella loro rappresentazione particolareggiata e attraverso l’utilizzo di più punti di fuga per rendere allo stesso livello visivo «l’infinitamente vicino e l’infinitamente lontano», come sostiene Panofsky. In più la luminosità creata con la pittura a olio diventa lo strumento per questo illusionismo spaziale. L’arte italiana al contrario ha la capacità di rendere la sintesi delle cose e «trarre dalle apparenze molteplici della realtà un’idea centrale», come scrive Claudio Stinati.

Antonello è riuscito a fondere queste due caratteristiche e creare un nuovo linguaggio.

A Palazzo Reale di Milano possiamo ammirare 19 sue opere delle 35 autografe. Fra queste molti ritratti, anche se Antonello è principalmente pittore di dipinti a soggetto religioso, pale d’altare e soprattutto stendardi. Opere delle quali poco si è conservato. La mostra, organizzata da MondoMostre Skira in collaborazione con il Comune di Milano e la Regione Siciliana, curata da Giovanni Carlo Federico Villa si presenta da subito eccezionale, anche se la sua gestazione è stata, diciamo, travagliata. L’anteprima doveva infatti tenersi a Palermo la scorsa estate. È stata inizialmente annullata per svolgersi più tardi, a fine anno. A Milano, poi, la presenza della famosa Annunciata, proveniente da Palazzo Abatellis di Palermo, è stata fino alla fine in forse per via delle richieste, esose e fuori dagli schemi classici di scambio, avanzate dalla Regione Siciliana. Alla fine la mostra è arrivata in porto.

Da vedere assolutamente anche perché, al contrario di quasi tutte le altre, a ogni sala corrisponde un dipinto e quindi è decisamente leggibile senza stress. Attenzione, però, andateci quando ci sono pochi visitatori. I dipinti sono particolarmente piccoli e se davanti a voi ci sono 3 o 4 persone rischiate di non vedere nulla. La particolarità dell’esposizione è che a ogni dipinto è affiancata una carta di Cavalcaselle con gli schizzi e i commenti relativi all’opera.

Tutti i documenti – 19 disegni tratti da 7 taccuini e 12 fogli sciolti – provengono dal lascito del 1904 della vedova del Cavalcaselle conservato presso la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia. Giovan Battista Cavalcaselle (1819-1897) è di formazione pittore ma soprattutto mazziniano. Durante il suo esilio a Londra conosce lo storico Joseph Archer Crowe con il quale scrive quasi tutte le sue opere. L’editore John Murray lo incarica di redigere un aggiornamento delle Vite del Vasari. In quegli anni viene pubblicata l’edizione dei fratelli Milanesi ritenuta carente nei riscontri visivi. Fra il 1857 e il 1863 Cavalcaselle gira la penisola italiana, spesso a piedi, con i suoi taccuini.

Qui troviamo la sua metodologia di lavoro di conoscitore attraverso «una lettura minuziosa degli aspetti tecnici e dello stato di conservazione, per l’utilizzo del disegno alfine di indagare le particolarità stilistiche e gli elementi morfologici (occhi, nasi, piedi ecc.)», scrive Susanne Adina Meyer. Questa pratica viene usata, come sottolinea Raphael Rosenberg, per illustrare, imparare e comprendere. Il progetto vasariano diventa di impossibile realizzazione e il materiale gli è però servito per la New History. Cavalcaselle si trova in Sicilia fra il 1859 e il 1860, e la sua analisi si rivela il primo tentativo di catalogazione dell’opera di Antonello.

Fra i dipinti esposti troviamo il San Gerolamo nello studio del 1475 proveniente dalla National Gallery di Londra. Opera fino al Settecento di Albrecht Dürer; è Cavalcaselle che la attribuisce ad Antonello come dipinto capitale e capolavoro assoluto. Intensa la Crocifissione del 1465 proveniente da Sibiu; manca però quella di Anversa più drammatica nello spasmo dei due compagni di dolore. L’Ecce Homo del 1475, proveniente dal Collegio Alberoni di Piacenza, ci dà l’esatta percezione dell’abisso nella figura dolente con quei dettagli significativi dell’ombra della corda sul petto e dell’intensità delle lacrime che sembrano vere. Giorgio Montefosco scrive che Antonello dipinge Cristo seguendo il vangelo di Giovanni e che i quattro evangelisti non lo hanno mai descritto fisicamente. Non conosciamo la forma e le dimensioni del suo corpo, il colore degli occhi, quello dei capelli ma «se il suo volto è quello che ha dipinto Antonello – il volto della sofferenza e degli ultimi – è lui che vogliamo amare, e amiamo».

Seguono altri bellissimi ritratti e, come detto, quell’Annunciata che è la vera e propria icona della mostra e capolavoro del Quattrocento, così semplice, intima, ieratica e distante.

Bello il catalogo, assolutamente da comprare anche se contiene tutte e 35 le opere autografe di Antonello e non solamente quelle in mostra. Il che può generare un po’ di confusione. Più che un catalogo sembra un volume a sé, adatto anche a esposizione finita.