Flauto magico. Flauto d’oro. Flauto di fuoco. Il flauto in questione era quello di Severino Gazzelloni, virtuoso nato cento anni fa (1919-1992) come Severino Gazzellone a Roccasecca (provincia di Frosinone), il paese della Ciociaria che diede i natali a San Tommaso d’Aquino.
Negli anni sessanta, settanta, ottanta del secolo passato, Gazzelloni divenne l’icona del suo strumento. Gazzelloni era ovunque: intervistato alla Festa dell’Unità, sulla sua passione per gli UFO o per una rubrica di cucina; ospite in televisione di Gianni Minà circondato dalle percussioni di Tullio De Piscopo, svolazzante con aplomb mentre accanto «si buttava» il molleggiatore-twist Rocky Roberts. Gazzelloni sorrideva anche dai manifesti reclamizzanti l’amaro schietto, i vestiti confezionati, gli orologi economici. Facile che molti finirono per torcere il naso davanti all’onnipresenza del musicista ciociaro, svalutandone gli indiscutibili meriti musicali e preferendogli un grande artista di segno opposto, l’aristocratico Jean-Pierre Rampal. «Per attestare la supremazia mondiale del nostro flauto d’oro sui suoi colleghi», ha scritto uno dei maggiori critici musicali italiani del Novecento, Fedele d’Amico, «si usa citare il fatto che un centinaio di compositori di oggi hanno scritto per lui; e va bene. Niente poi vale, a questo scopo, quanto ascoltare lui alle prese con la musica di prima del diluvio, da Vivaldi a Prokof’ev».
Per Gazzelloni hanno scritto forse anche molti più compositori che il centinaio menzionato da d’Amico – sarebbe meglio dire chi non ha scritto per lui – ma il critico romano aveva perfettamente ragione nel sottolineare non solo la sua passione nel tradurre «in musica geroglifici all’apparenza incomprensibili», ma nel difendere una tradizione italiana del flauto, incarnata in un disco a suo tempo celebre, realizzato con i Musici: una silloge di concerti di Vivaldi, Tartini, Boccherini e Mercadante.
Una biografia di Gian Luca Petrucci (Severino Gazzelloni – il flauto protagonista, ed. Zecchini, € 29), non dimentica il centenario corredando la narrazione libera con testimonianze ammirate (da Stravinskij a Petrassi e Berio), il numericamente incredibile catalogo delle registrazioni, i non meno sorprendenti elenchi di brani appositamente composti per il suo flauto e i nomi degli allievi di tutto il mondo che affollavano gli storici corsi al Conservatorio di Pesaro e di Santa Cecilia a Roma, i corsi di perfezionamento all’Accademia Chigiana di Siena o i Ferienkuse di Darmstadt.
Nitore e bellezza del suono di Gazzelloni sono stati storicamente inquadrati da d’Amico in un articolo di cinquant’anni fa ancora oggi non superato: «Forse nessuno colse mai così direttamente la vocazione del flauto, quanto il suo modo di disincarnare il suono, riducendo il fraseggio a interiorità pura e quasi illudendoci che il suono sia un’efflorescenza secondaria della musica, invece che la sua base fisica; ma pure fornendoci di questa efflorescenza, una gamma incredibilmente ricca, e adoperandola secondo scelte infallibili».
Nel libro c’è anche Gazzelloni prima di Gazzelloni, vale a dire la storia della sua volontà di ferro come studente a Santa Cecilia, l’ingresso nel famoso complesso dei Musici, la parallela attività come primo violoncello dell’orchestra della RAI di Roma e come elemento di spicco del Quintetto di fiati della Rai, insieme ad altri insigni e dimenticati strumentisti, Pietro Accoroni, Giacomo Gandini, Carlo Tentoni e Domenico Ceccarossi.
Luciano Berio lo ha dipinto con un pizzico di ironia mordace, quando scrisse che Gazzelloni «esibiva la misteriosa dignità di un fauno, ma anche l’insopprimibile cupidigia di un satiro che vuole possedere per intero il corpo della signora Musica, in tutte le sue curve e tutti i suoi anfratti».