Furore coreano

Festival di Locarno/1 – Il regista Bong Joon-ho e l’attore Song Kang-ho hanno dialogato con il pubblico in un incontro moderato dall’ex direttore della rassegna Olivier Père
/ 19.08.2019
di Nicola Mazzi

In Asia sono delle superstar, da noi un po’ meno, anche se negli ultimi anni hanno acquistato notorietà pure in Occidente grazie ai numerosi premi ottenuti e ai film che hanno realizzato. Ospiti d’onore del Festival del Film di Locarno il regista Bong Joon-ho e l’attore Song Kang-ho si sono dimostrati simpatici e disponibili nelle varie occasioni in cui sono intervenuti come nell’incontro con il pubblico, moderato dall’ex direttore Olivier Père.

«Ho sempre sognato di diventare come Steve McQueen. Vedevo questi attori americani e avevo voglia di imitarli, avevo per loro una grandissima ammirazione. Per questo sono diventato attore» ha detto Song Kang-ho, rispondendo a una domanda sui suoi inizi. E lo stesso protagonista dell’ultimo film di Bong Joon-ho, Parasite (meritato vincitore della Palma d’oro a Cannes), ha anche rivelato di aver iniziato a recitare giovanissimo in teatro. Un lavoro, quello a contatto diretto con il pubblico, che lo ha fortificato e aiutato molto a diventare un attore. «È necessaria molta energia a teatro, il pubblico te la chiede; mentre recitare su un set è completamente diverso poiché in quel caso è fondamentale il lavoro di preparazione del personaggio».

Sempre Song Kang-ho ha pure evidenziato come a lui piaccia sempre discutere con i registi del ruolo da interpretare, perché è necessario certamente metterci dentro una bella dose d’istinto, ma occorre anche essere sicuri del personaggio che si mette sullo schermo.

Sollecitati da Père i due hanno ricordato il loro primo incontro. Il regista ha sottolineato di aver visto Song Kang-ho per la prima volta nel 1997 quando interpretava il ruolo di un gangster nel film Green Fish di Lee Chang-Dong e di essere rimasto impressionato dall’interpretazione iperrealistica che aveva dato al personaggio.

Sempre l’ex direttore del festival ha evidenziato come la Corea del Sud della fine degli anni 90 sia stata una fucina di talenti incredibile dal punto di vista cinematografico. «Negli ultimi decenni il cinema coreano ha cambiato e influenzato il cinema. È passato da una fase in cui era conosciuto solo all’interno dei propri confini a essere noto in tutto il mondo. E questo in molti generi diversi».

«È vero» ha evidenziato Bong Joon-ho. «In quel periodo sono nati e poi cresciuti grandi registi e attori. Ma non solo, c’è anche stata una nuova generazione di produttori che ha creduto nel nostro cinema. Cosa rara ovunque. E il tutto è successo perché «con la fine della dittatura militare è stata rimossa la censura, e io come tanti altri colleghi, ho cominciato a lavorare. In quel momento abbiamo avuto una libertà artistica molto grande. Credo che sia successo così o forse, più semplicemente, il governo ha messo qualcosa nell’acqua che ha fatto impazzire tutti per il cinema», ha scherzato il regista.

La prima collaborazione tra i due è stata in Memories of Murder: «Mentre scrivevo la sceneggiatura di quel film pensavo a lui per il ruolo da protagonista, quello che non sapevo e mi preoccupava era sapere se a lui poi sarebbe piaciuta altrettanto. Ma alla fine è andata bene». È stata un po’ diversa la loro prima esperienza insieme fuori dai confini coreani. «È vero che è stato un periodo strano. Snowpiercer è molto ricco di effetti speciali, ma chiede molto anche agli attori e devo dire che lavorare con attori hollywoodiani è diverso rispetto al lavoro fatto con i coreani, avevo delle sensazioni contrastanti, e ammetto che alcune volte finivo le riprese ed ero scoraggiato; invece altre volte trovavo il tutto piuttosto divertente».

E sulla loro relazione fuori dal set i due scherzano: «A dire il vero ci amiamo!» «A parte gli scherzi, siamo abbastanza amici e non ci incontriamo solo quando lavoriamo, e in quelle occasioni preferiamo parlare di calcio, della nostra vita privata e poco di cinema».

Molto interessante e significativa di una certa direzione che sta prendendo il cinema è la spiegazione che il regista ha dato per la scelta di trasmettere Okja (il penultimo film) sulla piattaforma Netflix e non nei cinema. «Il discorso è abbastanza semplice. Quello era un progetto a cui lavoravo dal 2014 e che richiedeva un grosso budget per le parti visive, oltre 50 milioni di dollari. Le produzioni europee o coreane difficilmente sono disposte a investire tanto denaro per un solo film. Abbiamo parlato anche con alcuni produttori indipendenti che ci chiesero se potevamo tagliare delle scene costose. Alla fine queste discussioni non hanno portato a nulla. Quando invece ho parlato con Netflix ho subito ottenuto 57 milioni di dollari e soprattutto il controllo totale sul film. Questo significa una libertà creativa incondizionata. È vero che per la distribuzione nei cinema era difficile ottenere qualcosa di meglio, anche perché la loro politica è molto rigida e non permette al film di uscire nelle sale se non per pochi giorni, ma ne ero cosciente e ho comunque accettato».

Bong Joon-ho ha quindi terminato con un elogio di Kurosawa. No, non Akira, quello dei Sette Samurai. «Certo anche lui mi piace molto, è un maestro. Ma devo dire che amo il cinema di Kiyoshi Kurosawa. Ha realizzato film molto attuali e che ammiro». Un riferimento non casuale in quanto il regista giapponese è stato inserito nel programma della Piazza Grande, nella serata di chiusura, con il suo ultimo lavoro To the Ends of the Earth. Un riferimento conclusivo a un collega a dimostrazione di come anche l’umiltà faccia parte del DNA di Bong Joon-ho e Song Kang-ho.