«Exegi monumentum aere perennis...». Nel celebrare il termine del suo sforzo letterario (il terzo libro delle Odi), sorretto dalla convinzione di aver fissato sulla pagina un capolavoro duraturo ed immortale, Quinto Orazio Flacco deve aver pensato a qualcosa di molto simile ai libri della Limmat Verlag: davvero dei mausolei di cellulosa, monumenti cartacei in vita, consacrazioni evidenti e inconfutabili che ci osservano in silenzio dagli scaffali delle librerie.
Il paragone potrebbe forse sembrare eccessivo agli occhi dei lettori d’Oltralpe, abituati a questa concretezza ed eleganza tutte teutoniche, ma reggerà senz’altro se pensiamo alla povertà di molti prodotti del mercato italiano, per cui l’hardcover, se ancora resiste, è diritto esclusivo di qualche bestseller poliziesco di sicuro successo, in prima battuta, o tutt’al più per volumi di tremila pagine, certo non per un genere di nicchia come la poesia.
Ugo Petrini (Montagnola, 1950) può andare perciò fiero di questa sua nuova pubblicazione, per la consistenza dell’oggetto editoriale non meno che per i contenuti selezionatissimi del suo interno; anche se, a ben vedere, il libro dovrà piuttosto definirsi un’opera a quattro mani, con il sospetto che quelle del traduttore abbiano lavorato più di quelle dello stesso autore, almeno negli ultimi mesi.
Quell’«ausgewählt und übersetzt von Christoph Ferber» che campeggia sotto il titolo nel frontespizio non è infatti frase di circostanza, se è vero che l’opera di selezione del traduttore, tra i più navigati ed esperti nel campo della poesia italiana in tedesco, specie all’interno della Svizzera, ha di fatto montato un libro che prima non esisteva, pescando a piacere nella già vasta produzione di Petrini, dalla prima Ellissi (Firenze Libri, 1987) alle notevoli Gazzelle di Thompson (Giampiero Casagrande, 2012) su su fino ai recentissimi Perdimenti (ADV, 2017). Lungi dall’essere quindi soltanto ‒ si fa per dire ‒ un esercizio di traduzione, questo Funamboli del vuoto è implicitamente anche un capitolo importante della bibliografia critica su Petrini (questa sì, purtroppo, ancora piuttosto scarsa).
L’onere di presentare il poeta al pubblico di lingua tedesca è, in una breve e acuta prefazione, del coetaneo e per molti versi affine Aurelio Buletti, che con lui condivide un’idea di poesia attenta alla dimensione minima dell’esistenza quotidiana, indagata con la stessa premura di una poiana che rotei gli occhi «senza perdere / mai di vista il sublime». Prive di titolo e quasi sempre composte da un solo, lungo periodo disposto sulla verticale della pagina (simili in questo allo stile sintattico di Federico Hindermann), le poesie di Petrini affrontano con arguzia e delicatezza i piccoli e grandi temi della vita, la morte in primis, ma anche il passare del tempo, le relazioni tra gli essere umani e il nostro rapporto con il mondo animale. Davvero non mancano gatti, capre, scoiattoli, protagonisti di un bestiario comune a molta poesia novecentesca (si pensi a Orelli e Montale) che inevitabilmente finisce per assumere valenze metaforiche, sprazzi di una riflessione morale nel senso più ampio del termine.
L’impressione, rafforzata dal fatto che il libro funziona anche se compulsato liberamente con balzi casuali tra le pagine, è che i brani poetici di Petrini non siano altro che tessere di un unico discorso intrapreso innanzitutto tra sé e sé, e con il lettore soltanto in seconda battuta. Da qui anche l’abitudine di iniziare i testi in medias res, non senza notevoli difficoltà per il traduttore: «Sempre nel posto migliore: / il più fresco d’estate / il più riposto d’inverno», a cui Ferber deve apporre per chiarezza «Du findest es immer...». Il tedesco, si sa, è lingua meno elastica e meno implicita dell’italiano, e il traduttore a volte deve muoversi veramente come un funambolo che vada incontro al poeta sullo stesso filo. Riesce benissimo quando si tratta di salvaguardare ritmo e suoni dell’originale: «mit dem Schnurrbart / die dunkelsten Höhlen / des Gartens, schnupperst / an Blumen und Grashalmen / in der finsteren Luft» («a fior di baffo / cogli le vibrazioni / di fiori e fili d’erba / fiuti l’aria scura»).
A volte qualcosa resta invece sul campo, come un simpatico «merendare» che Ferber rinuncia a tradurre (forse ci sarebbe stato un frühstücken?), e soprattutto, più grave, vengono meno alcuni riferimenti alla cultura popolare e religiosa, assai frequenti in Petrini, come i grani (del rosario) e le stazioni (della Via Crucis) che in tedesco assumono la forma di più banali Korn e Kreuzweg. Dettagli che non inficiano la bontà di un risultato che rappresenta davvero, per Petrini, «i miei trent’anni di poesia», come recita la dedica manoscritta sulla mia personale, solidissima, copia del libro.