In tempi in cui la cultura popolare di matrice celtica ha conosciuto un revival davvero significativo a livello internazionale, anche nel mondo del pop-rock più di una formazione ha tentato di «cavalcare la tigre» e guadagnarsi il favore del pubblico con qualche contaminazione stilistica di sapore prettamente folklorico. A non tutti, però, la fortuna ha arriso quanto alla band irlandese dei The Corrs: definibile come un gruppo a vera e propria «conduzione famigliare», composto interamente dai fratelli Corr – Andrea, Sharon, Caroline e Jim (quest’ultimo l’unico maschio del quartetto) – il complesso ha conosciuto un’immediata popolarità e successo di pubblico fin dall’esordio, avvenuto nell’ormai lontano 1995 con l’album Forgiven, Not Forgotten.
Un trionfo, quello della band di Dundalk, principalmente dovuto a un astuto compromesso: l’ingegnosa scelta di combinare le sonorità tipiche della tradizione folk irlandese con il sound pop più mainstream e radiofonico, dando così vita a un cocktail dal sicuro successo commerciale. Armati non solo del corredo tipico di ogni rocker, a base di chitarre elettriche, basso e batteria, ma anche di strumenti tradizionali del folklore irlandese e scozzese come il tin whistle e il fiddle (versione «popolare» del violino classico), i quattro ragazzi Corr si sono così prodotti in un repertorio a base di canzoni quasi esclusivamente d’amore, che alterna episodi di melensa enfasi romantica a pezzi dal respiro ben più drammatico e intenso, capaci di offrire riflessioni di maggior profondità. Una mescolanza che ha permesso alla band di guadagnarsi ammiratori sia tra gli ascoltatori casuali che tra gli amanti della musica tradizionale celtica – sebbene questa sorta di dicotomia artistica, quasi un conflitto irrisolto tra la pura qualità artistica e le necessità commerciali del momento, finisca per infastidire gran parte di quel ristretto pubblico che, come la sottoscritta, ritiene quasi un peccato mortale «contaminare» una tradizione dall’indubbio spessore culturale con qualsivoglia velleità di tipo commerciale.
Anche il nuovo sforzo della band, dal titolo di Jupiter Calling, sembra seguire il sentiero tracciato dai Corrs fin dagli esordi, confermando in modo ancor più esplicito del solito questa sorta di implicita disputa, risultante in una connotazione stilistica per certi versi «sospesa» tra due mondi: tanto che, a un primo ascolto, ben poco di nuovo sembra affacciarsi all’orizzonte nella tracklist di questo CD. Infatti, accanto a brani pervasi di suggestioni letterarie e vibranti di pura intensità celtica – come l’ottima traccia di apertura Son of Solomon (che richiama da vicino classici del folk anglosassone quali Scarborough Fair) – troviamo anche pezzi molto più prosaici, quali Butter Flutter e Live Before I Die, ennesimi esempi di innocue ballate romantiche; tanto che, nonostante l’argomento, nemmeno il più ritmato SOS, incentrato sul dramma siriano, riesce a innalzarsi al di sopra delle regole di base del tipico, ma scialbo, pezzo orecchiabile di matrice pop.
Tuttavia, se ci si prende il tempo di ascoltare con attenzione quest’album, si scopre come, in realtà, i Corrs abbiano stavolta «osato» contaminazioni e sperimentazioni più ardite del solito, andando oltre ai brani dal sapore inequivocabilmente irlandese (si veda la suggestiva The Sun and the Moon, reminiscente delle antiche leggende anglosassoni) per tentare esperimenti più azzardati: su tutti, l’intrigante Chasing Shadows, in cui si avverte chiaramente l’influenza della produzione del leggendario cantautore americano T Bone Burnett, certamente responsabile delle sonorità più «sporche» e delle atmosfere da puro American sound evocate da alcuni passaggi melodici. Qualcosa di simile si riscontra anche nei lenti Road to Eden e Season of Our Love, fortunatamente scevri da troppe melensaggini, e nel più brioso Dear Life, che combina sonorità quasi da musical al sound irresistibile della giga irlandese. E se proposte più accattivanti quali Hit My Ground Running e Bulletproof Love risultano anche troppo convenzionali da un punto di vista compositivo e di arrangiamenti, per contro sorprende la presenza di un brano delicato e intimo come No Go Baby – tributo a un bambino a lungo desiderato ma mai nato, che, pur rischiando di scivolare nel melodramma puro, riesce comunque a mantenere fino alla fine un rigore compositivo piuttosto interessante.
In tal senso, l’impressione generale data da Jupiter Calling è quello di una band per certi versi in bilico, divisa tra le limitazioni delle convenzioni mainstream e le opportunità di reinvenzione personale offerte dal contributo di influenze esterne tutt’altro che disprezzabili: la speranza è perciò quella che i fratelli Corr sappiano infine trovare il coraggio di buttarsi – stavolta completamente – in avventure sonore più ardite e meno convenzionali, dimostrandosi capaci di guardare oltre i meri piazzamenti da classifica per dedicarsi piuttosto ad innalzare il proprio livello artistico.