Europei, intellettuali, premiati

Dopo l’annus horribilis 2018, il doppio Nobel 2019 per la letteratura va alla polacca Olga Tokarczuk e all’austriaco Peter Handke
/ 14.10.2019
di Paolo di Stefano

Promesse mantenute solo in parte. Doveva essere il Nobel femminile ed extraeuropeo. È andato a una donna, Olga Tokarczuk, e a un uomo, Peter Handke, polacca la prima, austriaco il secondo. Viene sempre voglia di fare qualche statistica, quando si pronunciano gli accademici svedesi. Il nome di Olga Tokarczuk, arcinoto in patria, non ha avuto grande circolazione tra i favoriti della vigilia: ma si sa che la giuria ama stupire e in effetti la scelta ha stupito alquanto.

Tokarczuk è la quinta laureata della Polonia e viene dopo Wislawa Szymborska, sconosciutissima da noi quando venne premiata, nel 1996. In Italia le sue poesie erano state pubblicate da Vanni Scheiwiller e tradotte da Pietro Marchesani, ma non c’è voluto molto tempo perché fosse letta e amata da cultori fedeli (e ripubblicata in toto da un grande editore come Adelphi). Olga Tokarczuk ha avuto più fortuna: in Italia è stata tradotta dalla piccola (e lungimirante) Nottetempo, la casa editrice fondata nel 2002 da Ginevra Bompiani (figlia di Valentino) e da Roberta Einaudi (nipote di Giulio). I titoli sono Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (2009) e Nella quiete del tempo (2013, già proposto con altro titolo da e/o). Prima ancora, era uscita in Italia per iniziativa di minuscoli editori come Forum e Fahrenheit 451. Quest’anno Bompiani ha pubblicato in sordina il suo libro più famoso, I vagabondi (Bieguni del 2007), una narrazione ibrida che mescola il racconto con il saggio e affronta il tema più ricorrente nell’immaginario della Tokarczuk, quello dei confini (non solo fisici), inseguendo e incrociando un centinaio di storie di frontiera, personaggi in viaggio non solo per necessità ma anche per desiderio (migrazione non è soltanto urgenza drammatica).

In realtà i «bieguni» sono i membri di una setta slava convinta che per sfuggire all’Anticristo bisogna mettersi in moto: e questo come altri elementi ci ricordano che Tokarczuk è psicologa di formazione junghiana, sicché i suoi racconti tendono verso la favola archetipica. Ma sposare il movimento significa anche stare dentro la contemporaneità (della rete, per esempio), oltre che rivendicare il diritto umano di attraversare i territori al di là degli steccati imposti da certe politiche. «Quando scrivo – dice Olga Tokarczuk – sono presa da una sorta di follia, di ossessione alla quale devo dare un ordine». Si capisce, leggendo le sue pagine, che si lascia possedere e trascinare da questa follia-ossessione, come accade agli scrittori migliori.

Letteratura europea. Sicuramente letteratura ardua e di qualità, mista e mai appagata di sé. Sia Tokarczuk sia Peter Handke risultano quasi in controtendenza rispetto agli ultimi due premiati, Kazuo Ishiguro (2017) e soprattutto Bob Dylan (2016). Grazie al cielo, i Nobel non hanno fondato un canone: ci sono tanti di quei vincitori completamente dimenticati… E ci sono tanti di quei nomi ignorati dai professori di Stoccolma: ultimi Philip Roth e Amos Oz.

Per fortuna non sarà tra questi Peter Handke, al quale si devono libri memorabili, quasi tutti proposti in Italia, dove giovanissimo fu «adottato» dalla Feltrinelli e tradotto anche da Enrico Filippini con la sua opera più trasgressiva e provocatoria, il testo teatrale Insulti al pubblico, 1968. Austriaco come Musil e Bernhard (che avrebbero meritato l’alloro molto più della connazionale Elfriede Jelinek), Handke è scrittore sperimentale ancora oggi che si avvicina agli ottanta. Sperimentale sin dagli inizi, quando proponeva La paura del portiere prima del calcio di rigore (diventato un film di Wim Wenders), un noir psicologico centrato su un omicidio senza ragione e su un vagabondaggio joyciano per i quartieri di Vienna.

Se Infelicità senza desideri (1972) è una sorta di biografia della madre, suicida, i suoi libri non sono mai una sola cosa: racconto, saggio, poesia, filosofia, teatro, cinema anche nella scrittura e non solo sul set, che Handke ha praticato con Wenders (Il cielo sopra Berlino in primis). Maestro di titoli: Saggio sul luogo tranquillo, Lento ritorno a casa, Saggio sul cercatore di funghi (che certo non sarà sfuggito a Giorgio Orelli, sensibile ai cercatori di funghi), Handke è autore de Il Canto della durata, del 1986, che può esser letto come un suo manifesto in versi. Una passeggiata in cui il poeta-narratore riflette su ciò che vede e su ciò che sente riferendone con tono confidenziale e divagante: «Singolare è il sentimento della durata / anche alla vista di certe piccole cose / quanto meno appariscenti, tanto più toccanti: un cucchiaio / che mi ha accompagnato in tutti i traslochi / un asciugamano / appeso nella stanze da bagno più diverse».

Due Nobel della Letteratura nello stesso anno non si vedevano da 50 anni. Ci si aspettavano voci extraeuropee come le gettonatissime (alla vigilia) Maryse Condé, francese originaria delle Guadalupe, e la canadese Margaret Atwood. Nell’anno che segue gli scandali giganteschi (finanziari e sessuali) che hanno sconvolto l’Accademia, sono arrivati invece due narratori della vecchia Europa inquieta.

Ci sono buone ragioni di polemica e buone ragioni di consenso. Ci si poteva legittimamente attendere di peggio. E di meglio. Se nei prossimi vent’anni vincessero Ian McEwan, Per Olov Enquist, Emmanuel Carrère, Marilynne Robinson, Annie Ernaux, Ngugi wa Thiong’o, Haruki Murakami, Cormac McCarthy, David Grossman, Abraham Yehoshua, Claudio Magris, Durst Grünbein, Jon Kalman Stefánsson, Joan Didion, Javier Cercas, Richard Ford, Colm Toibin, Javier Marias, John Banville, gli accademici ci stupirebbero davvero.