Emozionarsi senza guardare

A colloquio con Silvio Soldini, che nel suo nuovo film Il colore nascosto delle cose si confronta con il delicato tema della cecità
/ 16.10.2017
di Nicola Falcinella

Emma (Valeria Golino) è rimasta cieca a 16 anni, ma è come se vedesse. Teo (Adriano Giannini) ha la vista, ma vive ottenebrato dal lavoro e da continue avventure con donne diverse. I due, che si incontrano durante un «dialogo al buio» e si ritrovano e si innamorano, sono i protagonisti de Il colore nascosto delle cose, il nuovo film di Silvio Soldini. Una bella e delicata commedia drammatica presentata fuori concorso alla Mostra di Venezia e ora al Cinema Lux di Massagno, al Teatro di Mendrisio, al Cinema Otello di Ascona e, da giovedì, al Cinema Forum di Bellinzona. Ne abbiamo parlato con il regista.

Silvio Soldini, il film è uscito in Italia da un mese e sta andando bene. Significa che c’è ancora spazio per il cinema d’autore?
Vuol dire che la gente non vuole solo vedere commediacce! È difficile capire come e perché il pubblico scelga di vedere un film. E perché difficilmente vada a vedere i film d’autore nel primo fine settimana di programmazione, che è quello fondamentale. Su questo film si è lavorato bene e si è fatta una bella promozione. Il titolo incuriosisce come speravo e poi fra gli attori vi sono nomi noti e di richiamo come Valeria Golino. E il pubblico è arrivato subito. Oggi le pellicole non resistono molto, tranne nelle grandi città, perché escono in continuazione nuovi titoli. Nel 2000 il mio Pane e tulipani uscì in Italia in dodici sale, che sono pochissime, ma ci fu il passaparola, il film, crebbe ed ebbe un largo successo. Oggi non potrebbe accadere, sarebbe spazzato via subito.

Se guardiamo alla sua produzione, la possiamo dividere tra un Soldini drammatico e asciutto e un Soldini da commedia leggera. Il colore nascosto delle cose è un punto d’incontro tra questi due percorsi?
Sì, è così. Questa è anche una commedia, ma più realistica delle altre. Non volevo fare un «drammone» sulla cecità, ma volevo che il personaggio cieco avesse una sua leggerezza, per questo l’ho affiancato a un’amica ancora più ironica. Cinque anni fa, realizzando il documentario Per altri occhi, in cui seguivo dieci ipovedenti che facevano cose particolari, scoprii un mondo. Mi accorsi che avevo un’idea lontana dalla loro realtà e sentii di dovere fare un film di finzione.

Il colore nascosto delle cose è dunque figlio di quel progetto.
Totalmente. Alcune di quelle persone mi hanno fatto da consulenti in fase di soggetto e sceneggiatura. Alcune, soprattutto le donne, hanno aiutato Valeria Golino. Lei infatti ha lavorato sul personaggio guardandole, ascoltandole e osservandole nelle faccende domestiche. Valeria ha seguito anche un corso di orientamento e mobilità per ciechi, perché esiste una tecnica particolare per usare il bastone, attraversare la città o organizzarsi la casa da soli. Non ci pensiamo, ma un cieco per essere autonomo deve lavorare il doppio di chi ci vede.

Il film inizia con l’esperienza sensoriale al buio. Quanto sono importanti queste cose?
Lo sono molto. A Milano e Genova ci sono le iniziative del dialogo nel buio. Sono molto interessanti anche le cene al buio: si entra in ristoranti senza illuminazione, con camerieri ciechi e magari anche cuochi ciechi, ci si siede con persone che non si conoscono e non si possono vedere. Bisogna immaginare, usare gli altri sensi. Ti rendi conto di quanto la vista influisca sugli incontri. La vista pregiudica molto.

Dal suo precedente film di finzione, Il comandante e la cicogna, sono passati alcuni anni. Nel frattempo ha realizzato alcuni documentari. Sono serviti, diciamo, per una ripartenza?
Il documentario è uno strumento di conoscenza bellissimo, permette di scoprire e raccontare mondi che non si conoscono. Ne avevo fatti altri in precedenza, ma è vero che in questo periodo mi ci sono dedicato con assiduità. Sulla cecità ho fatto anche Un albero indiano, realizzato durante un viaggio in India di due settimane con uno di loro, un’altra esperienza molto intensa. È la prima volta che da un documentario mi nasce l’idea per un film di finzione, altre volte avevo solo preso spunto per un personaggio.

A un certo punto Teo guarda il film di Luigi Comencini, E ciò al lunedì mattina (1959), nel quale un impiegato decide un giorno di non andare al lavoro e si prende del tempo per sé. È legato a ciò che gli accade?
Devo ammettere che quel film non l’ho mai visto e se c’è un’analogia è casuale. Cercavo una scena di un vecchio film nel quale si sentisse un rumore continuo ma non si capisse cosa stesse succedendo. Un po’ il contrario della mia scena iniziale, nella quale non si vede ma si sente.

Il film è per lo più girato in formato 4:3, ma in alcuni momenti le immagini si allargano.
Il cambio di formato ha a che fare con la visione e con i sentimenti, mi piaceva farlo in modo quasi subliminale, non enfatizzato come ho visto in un paio di opere. La prima volta che si apre lo schermo è quando i due sono nel bosco e parlano, e lui entra nel tempo di lei. Credo porti emozioni. Il formato in questo caso è un respiro, si respira con i protagonisti.