Dove e quando
Milano, Teatro Elfo Puccini, fino al 10 dicembre.


Earnest, un nome che ispira fiducia

La più famosa commedia di Oscar Wilde in versione pop (o camp?)
/ 27.11.2017
di Giovanni Fattorini

Nella locandina de L’importanza di chiamarsi Ernesto inscenata da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, il nome «Ernesto» è cassato con un frego nero, per richiamare l’attenzione sulla difficoltà (sull’impossibilità?) di tradurre adeguatamente l’inglese «Earnest», che si pronuncia come «earnest», aggettivo dalle accezioni diverse e tutte positive per la giovane Gwendolen Fairfax, la quale sogna da sempre di amare qualcuno che si chiami Earnest («C’è qualcosa in quel nome che ispira una fiducia assoluta»). Insoddisfatti di tutte le versioni finora proposte (Ernesto, Franco, Onesto, Probo, Sincero, Fedele, ecc.), Bruni e Frongia hanno dunque deciso di mantenere, nella messinscena, il nome inglese originale: Earnest.

Ad apertura di sipario, le intenzioni dei due registi-scenografi-costumisti vengono immediatamente dichiarate. Sulla nuda parete di fondo si vede la riproduzione ingigantita (l’originale misura 26 x 25 cm) di un collage di Richard Hamilton che molti considerano l’opera inaugurale della Pop Art. Chi lo conosce e lo ricorda bene nota subito una significativa modificazione: al posto della pin-up a seno scoperto seduta in atteggiamento seduttivo su un divano (equivalente femminile del culturista che all’altezza dell’inguine impugna un vistoso lecca-lecca puntato verso la donna e con sopra scritto «pop»), Bruni e Frongia hanno inserito un ritratto fotografico di Wilde. Contemporaneamente risuonano le note (una breve citazione, modificata da Giuseppe Marzoli) di un classico della discomusic che è diventato una sorta di inno gay: I Will Survive.

L’importanza di chiamarsi Ernesto è una «commedia di conversazione» in cui la scarsità degli avvenimenti è compensata dalla brillantezza e dalla causticità dei dialoghi. A un primo ascolto, il comune spettatore può forse giudicarla intessuta di paradossi che vogliono principalmente stupire. Ma leggendola è impossibile non condividere ciò che ha scritto Borges in poche e dense pagine sullo scrittore irlandese, e cioè che «Wilde, quasi sempre, ha ragione».

Viene anche fatto di pensare che molte delle battute che svelano, come scrivono Bruni e Frongia in una nota di regia, «la falsa coscienza di una società che mette il denaro e la divisione in classi al centro della propria morale», acquistano pieno rilievo solo se pronunciate tra le pareti di stanze abitate e frequentate dai membri di una high society che coltiva l’eleganza dei modi, il rispetto delle convenzioni, la conoscenza della sintassi. Vale a dire: una società che difende – sia pure ottusamente e ipocritamente come quella vittoriana – il mantenimento di una forma. Di un siffatto ambiente e di una commedia che possiede anch’essa una forma precisa, è possibile inscenare una versione pop? È possibile, cioè, farne uno spettacolo che guardi e attinga alle forme di rappresentazione e autorappresentazione della società di massa, senza finire nella parodia? Bruni e Frongia ci hanno provato.

Per ragioni di spazio mi limiterò ad elencare alcuni degli elementi più vistosamente pop dello spettacolo: 1) Gli abiti molto colorati che in varia misura contaminano spiritosamente antico e moderno, fatta eccezione per quelli neri e più ottocenteschi del reverendo Chesuble e Miss Prism. 2) Il design dei sedili nel salotto di Algernon Moncrieff e la pianta folta di rose rosse palesemente finte che fiammeggiano nel giardino di Manor House. 3) Le illustrazioni proiettate sulla parete di fondo, col ritratto di Wilde che nel primo atto è su un divano; nel secondo fra le rose di una carta da parati; nel terzo su una sterlina, con la corona in testa, gli orecchini di brillanti e la legenda «God save Oscar». 4) Il disegno alla Roy Lichtenstein dello scambio di anelli nuziali. 5) Le citazioni modificate da I Will Survive e più frequentemente da Paint It Black dei Rolling Stones. 6) La gestualità dei personaggi e il ritmo dell’azione, che spesso richiamano i cartoon.

Nella già menzionata nota di regia si legge che «Wilde inventa un linguaggio inedito che pone le basi dell’umorismo queer». Da questo convincimento derivano alcuni degli elementi pop di cui ho detto, e soprattutto certi aspetti (sporadici per quanto riguarda John, assai più frequenti per quanto riguarda Algernon) di una recitazione dalle coloriture gay.

Penso che lo spettacolo di Bruni e Frongia si possa definire una messinscena moderatamente camp e parecchio divertente (in qualche punto molto divertente) della più famosa e più bella commedia di Oscar Wilde. Tutti bravi gli attori. A cominciare da quelli che interpretano le giovani coppie di innamorati: Riccardo Buffonini (Algernon), Camilla Violante Scheller (Cecily), Giuseppe Lanino (John), Elena Russo Arman (Gwendolen). Brave Ida Marinelli (Lady Bracknell) e Cinzia Spanò (Miss Prism). Nicola Stravalaci è il maggiordomo Merriman e il cameriere Lane. Luca Toracca il dignitoso e comico reverendo Chasuble, palpitante d’amore per Miss Prism.