Utili, funzionali ma anche belle: l’attenzione per l’aspetto delle cose quotidiane, oggi persino assillante, non è una prerogativa dell’era del design. Ha alle spalle quasi due secoli di storia. Al Landesmuseum di Zurigo, li rievoca, con meticolosità scientifica e spettacolarità divulgativa, la mostra Alla ricerca dello stile, dove, appunto, si risale all’origine di una nuova esigenza estetica. Si era alla metà del XIX secolo e le conquiste della rivoluzione industriale stavano trasformando l’ambiente e le abitudini di vita. Si usavano oggetti, non più fatti a mano nei laboratori degli artigiani, ma prodotti in fabbrica dalle macchine. E, agli utensili e arredi tradizionali, se ne aggiungevano di continuo altri, ormai indispensabili. Lampadine, rubinetti, caloriferi, e poi grammofoni, apparecchi telefonici, biciclette e via enumerando i ritrovati di una tecnica (il termine tecnologia era di là da venire), già allora ammirata e deprecata.
Soprattutto, cambiavano la fisionomia, le dimensioni e i contenuti dei luoghi dove si abitava e si lavorava. Il quadro di vita, insomma. Simbolo del passaggio dall’era rurale all’era industriale, nasce allora la metropoli: destinata ad accogliere l’esodo dalle campagne del futuro proletariato e, in pari tempo, a soddisfare visibilmente le ambizioni culturali e sociali di un’intraprendente borghesia. Ed è questo spirito di lungimiranza e concretezza a lasciare un’impronta inconfondibile nelle grandi capitali, Londra, Parigi, Vienna, Madrid, ma anche in centri minori, Zurigo, Winterthur, Dresda o Bilbao. Sia l’edilizia pubblica, con scuole, teatri, biblioteche, stazioni, e poi viali, piazze, parchi, sia l’edilizia privata, con grandi empori, negozi, ristoranti, cinema, palestre compongono un nuovo modello di città, per certi versi omologata. Ne sono tipici esempi i Teatri dell’Opera, simili da Parigi a Vienna a Praga e i grandi Musei, dal British di Londra al Metropolitan di New York, costruzioni persino ibride, dal profilo architettonico.
Oggi, sottoposto all’esame multidisciplinare, che accomuna storici, critici d’arte, tecnici, urbanisti, questo periodo viene ricondotto al cosiddetto «moderno», di cui sarebbe il precursore. Non si tratta di uno stile unitario, che fa capo a regole precise, bensì, come dice il titolo della mostra, di uno stile «in fieri», che si esprime in tanti modi, abbracciando opere d’architettura, dipinti, vasellame, mobilio, tessuti. E tutto ciò in un clima di libertà e di scambi che prelude l’avvento del turismo, dell’esotismo e del multiculturalismo.
Non a caso, la nascita del moderno si fa coincidere con l’esposizione mondiale di Londra, nel 1851: il «Crystal Palace», costruzione avveniristica, di vetro e metallo, visitata da 6 milioni di persone, un primato per l’epoca e un indizio della curiosità per l’inedito e l’esotico.
Progettista Henry Cole, animato da intenti d’ordine sociale e morale, e responsabile dei lavori, l’architetto Owen Jones, tipica figura di romantico giramondo, e autore di una Grammatica dell’ornamento, guida all’estetica, che propone esempi appartenenti a ogni epoca e cultura. Ciò che, del resto, caratterizza la creatività nella seconda metà dell’800, in bilico fra sviluppo tecnico e rielaborazione di elementi del passato. Evidenti, nelle costruzioni di quei decenni, i richiami ai templi dell’antica Grecia, alle guglie delle cattedrali gotiche, alle facciate rinascimentali. Mentre, in pittura, nelle arti applicate, tessitura, ceramica e arredamento, si avvertono gli influssi del Giappone e dell’Oriente in generale, luoghi resi accessibili dall’apertura del canale di Suez, nel 1871.
Ora questa molteplicità di stimoli si rivela anche rischiosa. «Peccati contro il buon gusto» aveva scritto il «Times», a proposito di molte cose viste al «Crystal Palace». «Un mix confuso di cianfrusaglie», dichiarava, a sua volta, di ritorno da Londra, l’architetto e storico dell’arte Gottfried Semper, (tra altro progettista del Politecnico di Zurigo, portato a termine nel 1864).
Si fa quindi impellente la necessità di trovare una sintesi. In altre parole: associare arti e mestieri, portare l’artigianato a un livello più alto e redditizio, sperimentare materiali e procedimenti e, infine, rendere compatibili funzione e immagine. Sono obiettivi che chiedono una nuova formazione professionale e una diversa visione culturale. La Svizzera si adegua prontamente. Si aprono i «Collèges Industriels», nel 1873 a La Chaux-de-Fonds, in seguito a Ginevra, a Bienne, e le «Kunstgewerbeschulen», a Zurigo e a Lucerna: scuole dove si gettano le basi a quello che diventerà il «design», consacrato dal «Bauhaus», negli anni ’20. È l’inizio di un lungo percorso, fra successi, infortuni e illusioni. Come ben illustra questa mostra zurighese, proponendo i risultati contrastanti della corsa verso il traguardo dello stile. Sinonimo di buon gusto, questione discutibile. Al di là delle definizioni e delle mode, è poi sempre questione di talento. Di cui, anche qui, si ritrovano le tracce nelle sedie dei fratelli Thonet, nei dipinti di Hodler e Segantini, nei vasi di Christopher Dresser e nelle fotografie dei Grands Boulevards parigini, opera del geniale barone Haussmann.