Natale a casa della famiglia Pezzati (Fondazione Archivio Fotografico Roberto Donetta)

È Natale in Val di Blenio e am rid ul cör

Feste – Testimonianze e ricordi di come si festeggiava una volta l’arrivo del Bambìn
/ 18.12.2017
di Sara Rossi Guidicelli

In Valle di Blenio, e sicuramente anche in altre parti del Ticino e del mondo cristiano, per Natale le campane avevano una parte speciale nella festa. Sonaa d’alegria, si diceva: i giovanotti del paese salivano in cima al campanile e suonavano tutte le campane a distesa e una invece martellata, cioè colpendo direttamente il battacchio con gioia sui bordi della campana.

«Per simile concerto che si udiva la sera durante la novena di Natale», racconta Ignazio Pally, sacerdote di Corzoneso nato nel 1940, collaboratore della «Rivista di folclore svizzero», «si seguivano i ritmi tramandati da generazioni di campanari; si usavano i termini dialettali interzà, starlà e ancora a zupéta o a ciòca e martill. Ho conosciuto a Semione e a Ponto Valentino contadini che erano sui monti con le bestie in dicembre e che la sera si radunavano sui promontori per cantare il Regem venturum dominum e ascoltare con nostalgia il suono della novena».

Tutte le persone anziane della Valle a cui ho chiesto del Natale degli anni Trenta e Quaranta mi raccontano così: era bella la novena perché c’era un rintocco in più ogni sera, il primo giorno un battito, il secondo due, fino ai nove della sera di Natale. Era bello il Natale perché si cantava, perché c’era il presepe in chiesa, perché gli emigranti tornavano in quel periodo e dunque quella era epoca di matrimoni, perché i bambini aspettavano il Bambìn che portava qualche spagnoletta o magari un paio di mutande calde ed era vero, perché si scopriva molto tardi che era la mamma a riempire la calza.

Virginia, nata a Ponto Valentino nel 1934, ricorda: «Ah, il Natale della nostra infanzia era bello! Aspettavamo ul Bambìn. Tutte le sere di novena suonavano d’allegria. Erano i ragazzi d’una volta, non i giovanissimi, ma i giovanotti, che suonavano. Era come alla festa della Madonna in luglio, anche lì si suonava d’allegria. Infatti erano queste due le feste più importanti, le uniche in cui si comprava la carne. Noi a casa facevamo la nostra mazza, quindi di mortadelle e salami ne avevamo tutto l’anno, ma carne comprata, il lesso o l’arrosto, solo a Natale e alla Madonna. Dopo la guerra è cambiato tutto, perché ormai si poteva avere carne tutte le settimane...». Poi la tradizione delle campane si è interrotta, dice Virginia, negli anni Settanta: il parroco di allora disse che gli davano fastidio; i giovani ci rimasero male ma nessuno osò contraddirlo. Piano piano in tutti i paesi l’abitudine festosa andò scemando.

Per Natale c’era anche un’altra tradizione, quella del parroco che andava a benedire le case. Durante il mese dicembre, iniziava dunque un grande affaccendarsi per pulire bene la propria casa, l’uscio, il salotto, la cucina; era persino l’occasione per cambiare la carta di rivestimento della credenza, come testimonia una signora nel bel libro sul Natale del 2016 di Franco Lurà. La settimana precedente il Natale o nel giorno stesso della Vigilia, scrive il direttore del Centro di Dialettologia e di Etnografia, nelle terre di rito ambrosiano il parroco provvedeva alla benedizione delle case. Arrivava molto presto: a Ghirone si presentava addirittura alle tre del mattino, prima che gli uomini partissero per andare a governare le bestie che in quell’epoca dell’anno stavano sui monti di mezzo. Al parroco, in cambio, si facevano doni in cibo o in denaro. A Olivone si ha testimonianza di «formaggelle squisite, cubetti di burro fresco, qualche filza di luganighe, mezza o intera dozzina di uova, vasi di miele, tavolette di cioccolata, qualche bottiglia di vino a seconda della disponibilità della famiglia».

Ma capitavano invece le annate molto magre, scrive Ignazio Pally in Segni e presenze del sacro in Valle di Blenio, pubblicazione del Museo Etnografico vallerano; per esempio, una volta a Prugiasco, si tramanda che il sagrestano, finita la benedizione delle case, rientrò in parrocchia con una sola mortadella nel cesto. «In illo tempore, la tavola di certe famiglie era spoglia come l’altare del Venerdì santo...» commenta Pally.

A Malvaglia, all’epoca, non c’era nessuna decorazione, rammenta Mirina, nata nel 1932. Ora lei tiene una ventina di pupazzi di San Nicolao davanti a casa sua, luccicante e bella più di un abete natalizio. Sua figlia è l’organizzatrice del Mercatino di Natale del paese: entrambe hanno una vera e propria passione per le Feste di dicembre. «Noi eravamo cinque figli», racconta Mirina. «La notte di Natale, a mezzanotte, facevamo i Cruciatìn da Malvaia, un piccolo coro composto dai bambini del paese. A noi bambine mettevano la camicetta bianca, la cravattina e la gonna nera; non so neanche dove mia madre avesse trovato quei bei vestiti. Erano le suore Ursula e Caterina, insieme a Don Aurelio, che avevano organizzato il coro dei Cruciatìn da Malvaia. Dopo la messa si andava da un cugino a mangiare il panettone con i parenti. Era una festa: dolci durante l’anno non ne vedevamo praticamente mai. Anche lì, ricominciavamo a cantare e ridevamo moltissimo. Poi il giorno dopo, il 25 dicembre, si stava a casa e la mamma preparava il pollo con le patate fritte: un’euforia per noi bambini».

Ognuno per il banchetto aveva le proprie abitudini. C’erano le famiglie con gli emigranti e allora sul tavolo compariva il pudding, o qualche altro piatto di tradizione inglese, belga o francese. Virginia, con la sua famiglia, mangiava i brasc, le castagne arrosto, con la mascarpa, prima della messa della Vigilia. «Noi a casa eravamo dieci, otto figli. Per quello noi da piccoli mettevamo una scatola fuori sul davanzale prima di andare a Messa: una calza per dieci non bastava! Aspettavamo con trepidazione che ul Bambìn mettesse dentro qualcosa. Non sapevamo che era nostra mamma che vi infilava dentro le spagnolette, i mandarini, le calze o le mutande di cui avevamo bisogno. Avevamo uno zio a la Chaux-de-Fond che ci mandava spagnolette che arrostiva lui e i cinque franchi d’oro, quelli di cioccolato. La mattina del 25 dicembre andavamo ancora a messa, e lì c’erano tutti quelli che erano scesi dai Monti.

A volte, da più grandina, è capitato anche a me di essere ancora su ai Monti con le mucche il giorno di Natale; allora o scendevo oppure una volta sono andata su un promontorio dal quale si vede Ponto e ho ascoltato le campane: che bel ricordo! Un’altra volta, c’era la luna piena e sono scesa insieme a una donna del paese e poi dopo la messa è salito mio fratello, per risparmiare a me tutta quella strada di notte».

Alcune famiglie benestanti iniziarono ad addobbare un albero di Natale, ma a inizio Novecento questa era considerata dai più una moda un po’ barbara, venuta da nord, dalla Germania; anche adesso c’è chi critica le «nuove tradizioni» come Babbo Natale o Halloween, anche se si tratta sempre di varianti di riti pagani quali la festa delle luci, la cacciata degli spiriti, il ramo propiziatorio da portare in casa prima dell’inizio del nuovo anno. Sono tutti elementi che il cristianesimo ha inglobato nella sua festa per celebrare la nascita di Gesù.

A mettere tutti d’accordo, anche allora, erano i presepi, i canti, le campane. In alcune chiese, come quella di Ludiano, tutte le famiglie del paese aiutavano a portare il muschio. Ancora Don Ignazio Pally scrive che aveva sentito raccontare di una signora Bibiana di Ponto Valentino che quando sentiva le campane suonate a festa diceva in vernacolo pontese «am rid ul cör»... e questo è l’augurio bello: che nel giorno di Natale possano ridere tutti i cuori che battono sulla nostra Terra.