Quando nel 1839, a Parigi, venne presentata ufficialmente la scoperta della fotografia, nessuno avrebbe potuto anche solo lontanamente immaginare la portata rivoluzionaria di quell’invenzione.
Il mondo artistico e culturale si divise fin da subito tra reazionari e progressisti. Alla domanda se talbotipie e dagherrotipi avrebbero potuto essere considerati una vera forma d’arte, non furono pochi, inizialmente, coloro che risposero con un risoluto diniego. Basti pensare al poeta francese Charles Baudelaire, che criticò ferocemente l’incredibile innovazione considerandola un mestiere per artisti mancati. Il fronte conservatore, infatti, vedeva la fotografia come qualcosa di prettamente meccanico che sviliva e degradava il processo creativo e la sensibilità dell’artista: sebbene fosse in grado di restituire con assoluta precisione il soggetto rappresentato, essa mancava di tutte quelle qualità che caratterizzavano la pittura, a partire dall’interpretazione personale dell’autore, capace di impreziosire la realtà lasciando trasparire un universo infinito di storie, ricordi ed emozioni.
Sul versante opposto, ci fu chi accolse con molta eccitazione l’avvento della fotografia, intuendone non solo il grande potenziale come strumento di supporto alla pittura, ma anche come forma autonoma di espressione. La «scrittura con la luce» imitava fedelmente ogni particolare, sostituiva le lunghe pose nei ritratti, regalava nuovi effetti chiaroscurali e sdoganava inquadrature inedite che da quel momento anche i pittori più tradizionali avrebbero potuto utilizzare.
Dovette passare dunque un po’ di tempo prima che questa novità venisse metabolizzata, ma odiata o amata che fosse, fu ben presto chiaro a tutti che con la fotografia il mondo si stava dirigendo verso la riproducibilità e la perfetta aderenza alla realtà, imboccando così una traiettoria che avrebbe cambiato per sempre il corso della sperimentazione pittorica.
A documentare le tappe più importanti dell’affermazione della fotografia nel corso dell’Ottocento è la rassegna allestita alla Pinacoteca cantonale Giovanni Züst di Rancate, che grazie a un’ampia raccolta di materiali – tra dipinti, fotografie, incisioni, disegni e libri, molti dei quali provenienti da collezioni private e presentati al pubblico per la prima volta – raccontano gli affascinanti albori di questa straordinaria invenzione attraverso un percorso concepito per rivelare il modus operandi di quei maestri che hanno fatto un entusiastico uso del mezzo fotografico nella loro arte.
Dopo una piccola ma interessante sezione volta a far conoscere le macchine fotografiche dell’epoca e alcuni degli strumenti per la riproduzione delle immagini, ci accoglie una serie di opere di pittori attivi tra Arras, nel Nord della Francia, e Fontainebleau, amena località naturalistica a una sessantina di chilometri da Parigi, a testimonianza di come la fotografia venisse ampiamente sfruttata per cogliere le mille sfaccettature del paesaggio e per dar vita poi a dipinti di grande suggestione. Tra questi spiccano le tele di Constant Dutilleux, assiduo frequentatore della foresta di Fontainebleau e originario proprio di Arras, dove con alcuni allievi e amici nel 1852 sviluppò il cliché-verre, un particolare procedimento di incisione su lastra fotografica.
A queste atipiche e molto rare «immagini su vetro», aulicamente chiamate «incisioni diafane», è riservata un’intera sala con pezzi provenienti dal Musée d’art et d’histoire, cabinet d’arts graphiques di Ginevra e dalla Casa Museo Luigi Rossi in Capriasca. Sospese tra incisione, disegno e fotografia, proprio per la loro natura ibrida tali opere circolavano perlopiù tra gli artisti stessi e i loro mecenati, tutti attratti dal potenziale estetico e dalla forza espressiva di questa tecnica. Belli in mostra i cliché-verre realizzati negli anni Cinquanta del XIX secolo da Camille Corot, uno tra i più entusiasti sperimentatori, così come quelli di Charles-François Daubigny, Théodore Rousseau, Jean-François Millet e Antonio Fontanesi.
Prende avvio, poi, un ricco percorso espositivo dedicato a pittori ticinesi e italiani dell’Ottocento la cui vicenda artistica è stata profondamente segnata dal mezzo fotografico. Troviamo chi, come il luganese Luigi Monteverde, incomincia la sua attività proprio in qualità di fotografo, per arrivare in seguito a dipingere con uno stile improntato a uno spiccato verismo fotografico (si veda ad esempio Arriva il postino, del 1908) caratterizzato da una grande vivezza cromatica e da una minuziosa verosimiglianza. Chi da pittore diventa fotografo è invece il lombardo Federico Faruffini, che negli ultimi turbolenti anni della sua carriera abbandona quasi del tutto pennello e cavalletto trascorrendo il tempo a immortalare donne ciociare in suggestivi scatti da vendere ai viaggiatori stranieri.
Talora la fotografia si fa soggetto dell’opera, come nella tela di Domenico Induno La bella pensosa, del 1870, in cui una donna dallo sguardo malinconico pare assorta in dolorosi ricordi fatti affiorare dalle due fotografie che tiene tra le mani, talaltra costituisce un imprescindibile strumento di indagine sul vero, come per Francesco Paolo Michetti, le cui leggiadre contadine che compaiono nel quadro intitolato L’incontro sono derivate da alcuni scatti di studio.
Per il ticinese Luigi Rossi la stampa fotografica diviene fonte da cui desumere la costruzione delle pose e la resa degli effetti luminosi (emblematici in questo senso sono i dipinti Primi raggi e Riposo, entrambi dei primi anni del Novecento); per Filippo Franzoni rappresenta un valido supporto per impostare la struttura compositiva della scena nonché per studiare i mutevoli giochi di luce (come accade in La vela, del 1895); per Pietro Chiesa è parte integrante della fase ideativa dell’opera ed espediente per verificare l’aderenza al reale (la delicata tela Quiete, datata 1898, ne è un esempio); per lo scultore Vincenzo Vela (a cui la mostra dedica un’apposita sala insieme al fratello Lorenzo e al figlio Spartaco) è materiale irrinunciabile per la creazione di ritratti illusoriamente veristici.
Con buona pace di Baudelaire la fotografia aveva ormai mutato per sempre le sorti dell’arte, e l’alleanza tra obiettivo e pennello sarebbe stata feconda per i secoli a venire.