Due modi di tradurre la letteratura sul grande schermo

Dall’Italia le letture di Marco Bellocchio e Michele Placido
/ 28.11.2016
di Fabio Fumagalli

*** Fai bei sogni di Marco Bellocchio, con Valerio Mastandrea, Bérénice Bejo, Fabrizio Gifuni, Guido Caprino, Emmanuelle Devos, Pier Giorgio Bellocchio, Piera Degli Esposti, Roberto Herlitzka (Italia 2016)

Non a caso la poetica di Marco Bellocchio continua a illuminare il panorama del cinema italiano dal 1965 di I pugni in tasca. E una volta ancora, già dall’incipit di Fai bei sogni, risalta la prima delle sue qualità, la semplicità. Il rigore di uno sguardo che ci guida subito all’essenziale; la scelta del dettaglio che permette allo spettatore di entrare immediatamente in sintonia con la situazione, i personaggi, i sentimenti, anche quelli più intimi. 

Appropriandosi dell’autobiografia di qualcun altro (il bestseller del giornalista della «Stampa» Massimo Gramellini), facendola sua seppur forse in parte diffidandone, Bellocchio l’ha tradotta in immagini che sembrano in bilico. Il registra si muove fra le tentazioni del cuore di una vicenda dall’evidenza emotiva quasi ovvia e l’esigenza razionale di distaccarsene ogni qualvolta l’emozione arrischia di straripare. È a quel punto che si dà spazio a un processo in cui l’ironia viene dissacrata, o addirittura si ricorre al fantastico, in un universo di ombre profonde dal quale il regista (che può contare sulla fedele presenza della fotografia di Daniele Ciprì, sul montaggio di Francesca Calvelli e sulle musiche di Carlo Crivelli) sa sempre estirpare il faticoso ritorno alla realtà dei personaggi. 

Fai bei sogni, nella sua modalità di esprimerli, non può che aderire a questa duplicità dei sentimenti. Da un lato vi è l’elaborazione crudele di un lutto, con la conseguente fatica di accettare le convenzioni sociali, con la ferita mai rimarginata del protagonista (interpretato da Valerio Mastandrea) dopo la perdita della madre a soli nove anni. Quindi il suo tardivo, quasi improbabile successo professionale, che comporterà un’evoluzione nei toni del film, dall’intimismo anche angoscioso degli spazi privati alle immagini pubbliche e storiche di Sarajevo, Tangentopoli, Superga e dei Giochi olimpici. 

Un rovesciamento paradossale, che soltanto la spregiudicata giovinezza espressiva del cineasta rende possibile: fondendo le atmosfere crepuscolari che rimandano a Ingmar Bergman e gli inserimenti inquietanti dello sceneggiato degli anni 60 Belfagor agli stralci euforici di Canzonissima. Una decostruzione alla quale il pudore espressivo del cineasta toglie ogni macchinosità, perfino in una progressione temporale che da magistralmente intuita si fa sul finire un po’ tanto spiegata. 

** 7 minuti di Michele Placido, con Ottavia Piccolo, Cristiana Capotondi, Violante Placido, Ambra Angiolini, Anne Consigny, Fiorella Mannoia, Sabine Timoteo (Italia 2016)

I partner francesi di un’industria tessile italiana in difficoltà hanno posto una condizione per salvarla dalla chiusura: gli operai accettino di sacrificare 7 minuti al giorno della loro pausa. Un dettaglio, a prima vista ragionevole, sul quale le undici dipendenti che compongono il consiglio di fabbrica devono pronunciarsi. È un tema encomiabile, di evidente attualità.

Una progressione drammatica tratta da un testo teatrale di Stefano Massini che, per la fatica di convincimento che toccherà alla delegata principale, riporta alla mente quella celebre assegnata all’Henry Fonda di La parola ai giurati, capolavoro di Sidney Lumet del 1957. Qui la brava Ottavia Piccolo è egualmente sola: fidarsi affinché nessuno perda il posto? Oppure diffidare di un dettaglio all’apparenza insignificante, ma forse destinato ad essere il primo di una serie inarrestabile?

Il film sottolinea bene la paura che induce a cedere al ricatto, la scelta intelligente delle undici protagoniste, il ruolo delle diversità sociali e culturali, dell’itinerario particolare delle tre immigrate, degli scompensi dovuti alle logiche generazionali. Se 7 minuti non decolla più di tanto è per i limiti di una regia che fatica ad adeguarsi alla forza dei quesiti. Malgrado il brio (talvolta eccessivo) delle protagoniste, filmare un’intera pellicola attorno a un tavolo richiede l’acume di uno sguardo registico portato per l’intimismo. In parte estraneo all’enfasi generosa di Michele Placido.