Dove nascono le disparità

Intervista a Chiara Volpato autrice de Le radici psicologiche della disuguaglianza
/ 08.07.2019
di Stefania Prandi

Il divario tra chi possiede grandi ricchezze e chi fatica a raggiungere la soglia minima del benessere è in aumento nelle società occidentali. Le disuguaglianze sono tra le cause principali dell'infelicità collettiva: seminano sfiducia e mettono a rischio la democrazia. Perché, allora, i tentativi di contrastarle sono pochi e deboli? Quali processi psicologici impediscono a chi è in condizione svantaggiata di ribellarsi? Con Le radici psicologiche della disuguaglianza (Laterza), Chiara Volpato, professoressa di Psicologia sociale all’Università di Milano-Bicocca, cerca di rispondere a queste domande.

Professoressa Volpato, perché secondo lei dovremmo riflettere sul fatto che le diseguaglianze sociali ed economiche sono in aumento?
La crescita delle disuguaglianze dovrebbe preoccuparci tutti perché ha come conseguenza il declino delle aspettative di vita, l’incremento dello stress e degli stati di ansia e angoscia e l’aumento della criminalità. Ci sono moltissimi studi, di vari ambiti, dall’economia all’epidemiologia, che dimostrano gli effetti negativi dell’allargamento del divario tra ricchi e poveri. Un testo appena pubblicato in italiano, L’equilibro dell’anima di due epidemiologi, Richard Wilkinson e Kate Pickett, si concentra proprio sullo stress psicosociale che condiziona la vita di chi è in una posizione subordinata.

Le società con minori disparità socio-economiche che particolarità hanno?
Sono più fortunate, si avvicinano a quella che si può definire «felicità collettiva». Anche in termini di salute, ci sono dei benefici. L’uguaglianza, infatti, è associata a una più alta speranza di vita e a minori tassi di mortalità infantile. Da un punto di vista del benessere psicologico, meno disparità implica meno stress e ansia e meno pregiudizi nei confronti degli altri, indipendentemente dai generi e dagli orientamenti sessuali. I livelli di convivenza sono migliori perché c’è più fiducia tra cittadini e istituzioni.

Nel suo libro spiega che spesso le persone non si rendono conto delle ingiustizie che le circondano perché tendono a dimenticarle e a credere che «il mondo sia un posto giusto». Può entrare nel merito di questo concetto?
Pensare che il mondo sia un posto giusto, stabile, prevedibile, ordinato, dove gli individui ricevono quanto meritano, fa accettare con più facilità la realtà, aiuta a controllare la paura, con un accrescimento del benessere e della soddisfazione anche se si sta male. Questa credenza diffusa, un pregiudizio possiamo dire, serve sicuramente per sopportare meglio la complessità ma ha anche effetti negativi: contribuisce a giustificare il sistema e fa sì che, di fronte a situazioni di dolore e ingiustizia, si venga portati a colpevolizzare le vittime, attribuendo loro la responsabilità di quanto accade.

In uno dei capitoli, lei si sofferma su un altro pregiudizio: tendiamo a credere che essere ricchi e potenti sia un merito. Cosa dice la psicologia sociale al riguardo?
Per rispondere a questa domanda bisogna considerare che una delle ideologie del mondo in cui viviamo è la meritocrazia, che porta a credere che chi è ricco e potente si sia meritato quello che ha, mentre chi è povero e marginalizzato non abbia fatto abbastanza per emergere dalla sua condizione. Quest’idea maschera il dato di fatto che non tutte le persone partono dalla stessa posizione. Potremmo parlare di meritocrazia se tutti fossimo nelle stesse condizioni da quando nasciamo, con le identiche opportunità e facilitazioni. Sappiamo che non è così, ma siamo comunque portati a credere il contrario. E questo accade perché siamo condizionati da un sistema di pensiero, un’ideologia appunto, fomentata da chi detiene il potere e la ricchezza e non vuole perdere il suo privilegio.

Lei scrive che il denaro ha il potere di cambiare le persone. Può spiegarci meglio quest’idea?
Questo concetto è recente, si ritrova negli studi degli ultimi vent’anni. Molti lo avevano già sostenuto, in realtà, nel passato, però era un discorso più filosofico e letterario. Ora abbiamo a disposizione una serie di ricerche scientifiche che indicano come le persone cambino anche al solo pensiero dei soldi. Ad esempio, di fronte all’immagine di banconote, le persone sembrano modificare il loro comportamento, mettono in atto atteggiamenti più efficienti, tesi al fare, al moltiplicare il denaro, e sono molto meno propense alle relazioni. Sappiamo che le persone potenti, che hanno successo e ricchezza, hanno meno interesse per gli altri e più per sé. Chiaramente bisogna considerare che questi studi ci danno un’indicazione di massima, non implicano che tutti si comportino nello stesso modo.

Spesso sentiamo dire, soprattutto quando si parla di certe aree del mondo: se stanno davvero così male, perché allora non si ribellano? Che cosa risponderebbe lei a questa domanda?
Diverse indagini ci dicono che chi sta molto male, ad esempio, chi soffre la fame, non ha energie per ribellarsi. Certe situazioni sono talmente interne a una situazione di bisogno e di scarsità che impediscono alle persone di avere la disponibilità mentale per reagire. Poi ci sono quelli che stanno un po’ meglio, ma che sono sempre in fondo alla società, e che non si ribellano perché farlo ha dei costi molto alti. Inoltre è difficile che si crei coesione sociale quando ci troviamo di fronte a una grande disparità economica. La cosiddetta «guerra tra poveri» è dovuta al fatto che ognuno cerca di pensare per sé e per la propria famiglia e disprezza chi ha meno per sentirsi meglio.

Come si possono ridurre le disuguaglianze sociali?
Tutti gli esperti, economisti inclusi, concordano sul fatto che il potenziamento del sistema dell’istruzione e della cultura in generale sia il primo passo da compiere. Ci sono poi misure legislative e politiche che dovrebbero essere attuate. Se osserviamo i «30 gloriosi anni», come l’economista Thomas Piketty definisce il periodo dal 1945 al 1975, vediamo che in tutti i Paesi occidentali c’è stato un aumento del livello di uguaglianza dovuto a politiche di tassazione sui patrimoni e al potenziamento del welfare. Negli ultimi vent’anni, invece, la situazione è peggiorata. Io credo che un cambiamento sia possibile con delle spinte dal basso, perché i potenti della terra hanno poco interesse a modificare la situazione attuale dato che ne godono i benefici. Penso che però a livello popolare non possano esserci soltanto rivendicazioni, ma serva una nuova visione, una posizione ideologica che valorizzi la comunità. Le manifestazioni degli ultimi giorni per l’ambiente forse vanno in questa direzione, con beni comuni in pericolo che possono essere salvati solo a livello collettivo.