Si concluderà in aprile la proposta più recente dei benemeriti Cineclub ticinesi, Un’introduzione al cinema di Douglas Sirk, il regista-globetrotter che rimbalzò dalle scene teatrali al set, di qua e di là dell’Atlantico; da Amburgo (dove nacque nel 1897 in una famiglia d’origine scandinava) a Copenaghen, Berlino, Monaco, Hollywood e infine a Castagnola, dove si spense nel 1987, a 90 anni.
Sirk fece parte di quella formidabile pattuglia di cineasti europei (registi, attori, produttori) che furono chiamati a Hollywood – Ernst Lubitsch, già alla fine degli Anni 20 del secolo scorso – o che laggiù in California trovarono rifugio dopo l’avvento del nazismo. Sirk «resistette» sino a pochi mesi prima di quel fatale settembre 1939, quando la situazione si fece insostenibile soprattutto per sua moglie, di famiglia ebrea. Negli USA non ebbe vita facile e fu costretto a restare per anni inattivo.
Ostinato e caparbio, Sirk non si diede per vinto nonostante i tanti progetti andati in fumo e i molti «no» incassati da produttori sovente inetti o perlomeno incapaci di cogliere il suo talento. Il successo cominciò a sorridergli alla fine degli Anni 50. Dapprima con Fiori nel fango, poi soprattutto con Magnifica ossessione, Secondo amore (All That Heaven Allows) e Imitation of Life (tradotto in modo meno pedestre con Lo specchio della vita). Una trilogia che rese Douglas Sirk un maestro del melodramma, idolatrato da R.W. Fassbinder e amato da Pedro Almodovar.
Melodramma, dal greco «canto, musica» e «finzione scenica», è diventato sinonimo di opera lirica. Le cose si complicano però quando si tratta di definire un «melodramma cinematografico». Storici e critici non sono mai giunti a un chiarimento definitivo, accontentandosi di precisare cosa deve avere un mélo per chiamarsi tale: un elenco andato ad allungarsi nel corso dei decenni. Esaltazione dei conflitti e dei sentimenti; sottolineatura di fato e destino (e qui val la pena di ricordare che Sirk perse un figlio appena 19enne, caduto con la divisa della Wehrmacht sul fronte russo), forze profonde e ineluttabili che muovono i personaggi. Turbinio di passioni e accadimenti grazie ai quali si accende l’identificazione del pubblico in almeno uno dei personaggi. L’uso di una retorica ampia, aulica e codificata, sebbene non in termini perentori, sì da poter lasciare uno spiraglio al colpo di scena.
Infine, gli atout precipui del cinema: l’esaltazione della scenografia, dei valori figurativi e simbolici della messa in scena; e un clamoroso uso del colore. «Tutte tinte forti e vivaci – scrive François Truffaut ne I film della mia vita a proposito di Sirk – verniciate e laccate da far urlare qualsiasi pittore. Ma sono questi i colori dell’America e del XX secolo, colori industriali che ci ricordano che viviamo nell’età delle materie plastiche».