Difficile migliorarsi, quando si è Sting...

Il nuovo album del musicista inglese non convince del tutto chi ha da sempre intravisto in lui una vena artistica più profonda e sensibile
/ 13.02.2017
di Benedicta Froelich

Tra le varie band inglesi che hanno sfondato sulla scena musicale internazionale tra la fine degli anni 70 e l’inizio del decennio degli 80, la formazione dei Police può senz’altro definirsi una delle più interessanti, principalmente grazie all’ardito mix stilistico tra reggae bianco e sonorità puramente pop che l’ha caratterizzata fin dagli esordi. E benché nemmeno questo gruppo sia scampato all’immancabile scioglimento, il suo frontman e cantante – il carismatico Gordon Sumner, meglio noto al grande pubblico con l’appellativo di «Sting», «pungiglione», a causa della sua passione per i maglioni a righe – ha più che compensato questa perdita con una stellare carriera solista, che ne ha fatto in breve tempo uno dei più osannati (e facoltosi) nomi della scena pop-rock angloamericana, responsabile, tra gli altri, di brani ormai classici quali If I Ever Lose My Faith In You, Russians e Desert Rose

Oggi, dopo circa tre anni di silenzio discografico, Sting torna sulle scene con questo nuovo lavoro, 57TH & 9TH – titolo che si riferisce all’incrocio tra le due traverse newyorchesi che il cantante era solito percorrere ogni giorno per recarsi in studio di registrazione. E basta inserire il CD nel lettore per rendersi subito conto che il singolo di lancio (nonché traccia apripista dell’album), I Can’t Stop Thinking About You, sembra tratto direttamente da un disco dei Police (per la precisione, Synchronicity): il che non ne fa certo un esempio di grande originalità compositiva, relegandolo al rango di brano minore, forzatamente privo di vera personalità. Purtroppo non è un caso isolato: infatti, sebbene ben più vivace e meglio arrangiato, anche un pezzo pur gradevole come One Fine Day suona piuttosto banale e ritrito, poiché mancante di una linea melodica sufficientemente definita da sostenerlo con reale efficacia. Una scintilla narrativa interessante la si ritrova però in 50,000, buon esempio di songwriting a metà strada tra il brano d’evasione puramente pop e la drammatica introspezione tipica di pezzi più complessi e dall’impostazione maggiormente cantautorale – una misura nella quale Sting si è sempre trovato a suo agio, ma che in questo 57TH & 9TH sembra, in verità, sfuggirgli. 

Così, il resto della tracklist scorre senza troppe sorprese; mentre una traccia cadenzata e allusiva quale Down, Down, Down non riesce, benché piacevole, a qualificarsi come davvero memorabile nella memoria dell’ascoltatore, l’esuberante Petrol Head si distingue invece per il fatto di essere l’unico brano davvero rock dell’intero album: un perfetto prototipo di trascinante cavalcata upbeat che, per quanto ben poco originale, svolge bene e senza troppe pretese il suo compito. Tuttavia, sono i brani più lenti a distinguersi per una maggiore impronta creativa e una più chiara intenzione stilistica, in grado di risollevare il disco dalla mancanza di spessore che affligge la maggior parte delle tracce: è il caso dell’eccellente Pretty Young Soldier, una ballata «old style» particolarmente intensa ed evocativa, che richiama la tradizione folk della «tragedia romantica». 

Interessante anche il delicato e «impegnato» Inshallah, concepito come una sorta di preghiera mediorientale, idealmente scritta dal punto di vista di un rifugiato in fuga dal proprio paese; sulla stessa linea troviamo pure The Empty Chair, pezzo dedicato al reporter americano James Foley, la cui morte è rimasta indelebilmente impressa nella memoria collettiva a causa del filmato che i suoi carcerieri, militanti dell’ISIS, fecero circolare su Internet nel 2014. Eppure, benché composto con le migliori intenzioni, il brano non riesce a mantenere del tutto le promesse, forse a causa di una vena vagamente melensa – difetto spesso riscontrabile in canzoni incentrate su argomenti tanto delicati ed emotivamente potenti. 

Ciò conferma che purtroppo, per quanto riguarda la capacità compositiva di Sting come solista, quest’album si colloca ad anni luce di distanza da lavori del calibro di The Soul Cages (1991) o Ten Summoner’s Tales (1993) – e in verità, a mancare sono anche quella creatività ed energia narrativa che hanno animato l’ultimo progetto dell’artista, l’atipico ma interessante musical The Last Ship (2013): un esperimento che, seppur non di grande successo, ha mostrato come Sting non abbia mai perduto il proprio tocco per lo storytelling di qualità. Purtroppo, però, non molto di tutto ciò sembra risaltare in 57TH & 9TH, che finisce così per presentarsi come un album perlopiù manierato, nel quale, a parte qualche eccezione, il cantante appare quasi ripetere a memoria le lezioni compositive assorbite in passato. E se qualcuno potrà vedere in ciò un sintomo di una funesta «deriva commerciale», chi scrive conserva comunque la speranza che la vena artistica di Sting possa presto spingerlo nuovamente verso sentieri più sperimentali e meno ovvi, riavvicinandoci ai fasti di un passato di cui forse oggi rimpiangiamo un po’ l’effervescente entusiasmo creativo.