Di matrimoni e altri meandri

Festival di Cannes - Forse si è cercata l’inaugurazione a colpo sicuro, ma il film di apertura non riesce a convincere fino in fondo
/ 14.05.2018
di Fabio Fumagalli

L’impressione nei primissimi giorni dell’onnipotente Festival di Cannes (200’000 visitatori, 30’000 accreditati, 5000 giornalisti; un richiamo mediatico superato dai soli Giochi Olimpici) sembra curiosamente accomunarsi con l’accoglienza riservata a uno dei suoi momenti apparentemente più attesi e inappellabili, l’inaugurazione affidata a Todos lo saben e firmata da un cineasta che non ha mai sbagliato un colpo, l’iraniano Asghar Farhadi.

Quattordici anni dopo La mala educacion di Pedro Almodovar, Cannes si è aperta con un film parlato in spagnolo. Ma è il film di un iraniano, e fra i più celebri: tanto da essere ormai considerato l’erede di un grande scomparso come Abbas Kiarostami. L’ascesa del cineasta è stata folgorante. Orso d’argento a Berlino nel 2009 con About Nelly; solo due anni più tardi, Oscar per il Miglior film straniero a Una separazione, fresco della conquista, questa volta dell’oro, a Berlino. Il passato sarà in seguito il primo film girato da Farhadi all’estero, in Francia. Per Il cliente Farhadi ritorna in Iran nel 2016 e vince due premi a Cannes, Migliore Sceneggiatura e Interpretazione maschile. Come se non bastasse, per la seconda volta l’Oscar per il film straniero.

Cosa succede in Todos lo saben, girato nuovamente lontano dalle significative atmosfere dell’Iran contemporaneo (siamo infatti in un piccolo villaggio spagnolo)? Farhadi deve averci pensato, se ha lavorato così a lungo sul film, entrando quasi in simbiosi con due emblemi iberici del cinema come Penelope Cruz e Xavier Bardem. E questo poiché nessuno – così ama ripetere da mesi il regista – dovrà dubitare del fatto che il film sia stato concepito interamente in Spagna. Cannes 2018, da parte sua, non ci ha pensato un attimo, tanto da concedere – per la prima volta dal 2005 – l’onore del film d’apertura a un’opera che partecipa al Concorso per la Palma d’Oro.

L’inizio del film promette questo e altro. Mentre l’assolata campagna spagnola s’intravvede appena attraverso gli squarci nelle mura antiche, all’interno del campanile polveroso le colombe si arruffano sotto le tegole. L’enorme ingranaggio dedicato al vetusto orologio occupa gran parte dello spazio, il rintocco assordante delle campane copre eventuali dialoghi, la coppia di adolescenti che vedremo amoreggiare incide laboriosamente nel muro le proprie iniziali. Ma lo spettatore è ormai in un altro campanile mitico, quello di Vertigo (La donna che visse due volte), uno dei capolavori di Hitchcock: dove Kim Novak incontrerà la morte, «forse» sotto gli occhi di James Stewart. Nella sequenza, altrettanto muta e magnifica che segue, il clima di Todos lo saben non sarà più onirico o romantico: dalle mani che frugano fra i ritagli di giornali capiremo di trovarci nelle atmosfere più destabilizzanti del crimine. E Farhadi le affronta con relativa preoccupazione, poiché il suo universo è più vicino al melodramma, quello delle coppie in dissoluzione, dei rancori mai sopiti, delle sopraffazioni culturali, della famiglia e della società tutta come crogiolo di un sistema solo in apparenza equilibrato. Un avvenimento inatteso e traumatico servirà allora al regista iraniano per rivelare le crepe di quel sistema basato sul non–detto, sul denaro e sui sensi di colpa.

Tutti hanno le loro ragioni, ma quant’è difficile decidere chi abbia torto. A reggere tutto il cinema di Farhadi è la meccanica che però, lontana dall’ambiguità di certe urgenze di casa, non sembra funzionare alla perfezione. Gli interpreti sono immersi impeccabilmente nella vicenda. Ancora più convincente di Penelope Cruz (un po’ troppo sommersa dalla sua lacrimosa tragedia), Javier Bardem sfrutta in modo mirabile le contraddizioni psicologiche dettate dal proprio fisico. Sicuramente il film mostra parte dei propri limiti nella sua progressione di storia di terre, antichi amori e sentimenti nascosti, nell’improvviso dramma di Laura, sposata in Argentina, di ritorno per il matrimonio della sorella. Lo spettatore si immerge dunque in un matrimonio scatenato, seguito da una resa dei conti non solo con la giustizia ma piuttosto con sé stessi, tanto che alla fine si ha quasi l’impressione di essere di fronte a una dilatazione eccessiva e inutile per la narrazione.

Quasi un paradosso, per uno straordinario cesellatore di storie come Asghar Farhadi.