In margine alla recente inaugurazione del Centro culturale «La Filanda», con la nuova sede della Biblioteca cantonale di Mendrisio, propongo di seguito qualche spunto di riflessione sul tema dei libri e delle biblioteche.
Bene hanno fatto i responsabili a mantenere l’antica denominazione «La Filanda», non solo perché ai mendrisiensi di tradizione il nome evoca memorie storiche e spesso familiari; ma anche perché con l’insediamento della biblioteca l’edificio – dopo l’esperienza della grande distribuzione e lo stato di sostanziale abbandono degli ultimi anni – recupera una continuità simbolica con la sua destinazione originaria, nel senso che vegetale è la materia prima di cui sono fatti i libri: il papiro in origine, gli stracci più recentemente, la cellulosa da metà Ottocento.
Di papiro erano appunto fatti – prima che subentrasse l’uso della pergamena di origine animale – i rotoli (volumina in latino, da cui il nostro «volumi») dei più antichi libri.
Il primo a mettere a disposizione una raccolta di testi per la lettura pubblica sarebbe stato, al dire dell’erudito Aulo Gellio (Notti attiche, VII, 17), il tiranno ateniese Pisistrato (VI sec. a.C.); ma la «madre di tutte le biblioteche» è giustamente considerata la biblioteca di Alessandria d’Egitto, fondata agl’inizi del III sec. a.C. da Tolemeo I Soter e ampliata dai successivi sovrani tolemaici.
Lo storico siciliano Diodoro, vissuto nell’età di Augusto, ci fornisce nel I libro della sua opera Biblioteca storica un’ampia descrizione delle istituzioni culturali (Museo e Biblioteca) fondate ad Alessandria dai Tolemei, basata su una visita personale e sull’autorità di Ecateo, storico greco del III sec. a.C. Ebbene, Diodoro ci dice che sopra l’ingresso della biblioteca era stata posta la scritta Psyches iatreion, ossia «luogo di cura dell’anima» (Canfora) o addirittura «ospedale dell’anima», accentuando la metafora medica che sta alla sua base, risalente al dualismo anima/corpo di tradizione soprattutto platonica, ma ampiamente condiviso da peripatetici e stoici.
Può ancora, la biblioteca dei nostri giorni, essere definita un luogo di cura dell’anima? E i libri ne costituiscono i medicinali? I segnali che giungono dal «mondo esterno» sono a mio avviso contrastanti: da un lato le fiere del libro e i festival di letteratura attirano un pubblico sempre più numeroso, e sempre più successo hanno le iniziative editoriali che propongono il libro come gadget, venduto come complemento di un quotidiano o di un periodico; dall’altro, a tutto ciò non sembra corrispondere affatto un aumento dell’abitudine alla lettura e il libro, soprattutto il caro e vecchio libro cartaceo, appare a taluni come un oggetto ormai desueto («Ma c’è ancora qualcuno che legge libri?», mi è capitato di origliare proprio durante la cerimonia d’inaugurazione della Filanda).
Anche qui, tuttavia, niente di nuovo. Già Seneca denuncia lo squilibrio tra il numero dei libri acquistati e messi in bella mostra negli scaffali dai ricchi romani del tempo e il numero di quelli effettivamente letti: «A che pro libri innumerevoli e collezioni, se in tutta la vita il padrone riesce a stento a leggerne i titoli?». E denuncia: «per molti, che ignorano anche l’istruzione elementare, i libri non sono strumenti di studio, ma arredi per le sale da pranzo», in quanto «al giorno d’oggi, tra bagni e terme, anche una biblioteca ben decorata è un indispensabile ornamento della casa». Di qui l’ammonimento: «ci si procurino libri quanto basta, e non per ostentazione» (Seneca, La tranquillità dell’animo, 9, 4-5 e 7). Per Seneca, insomma, anche nel campo della lettura e degli studi deve valere il principio della giusta misura: «Troppi libri appesantiscono il discente, invece di istruirlo; ed è molto meglio consacrarsi a pochi autori, che vagabondare fra molti» (op. cit., 9, 4. Considerazioni simili anche nella seconda delle Lettere a Lucilio, §§ 1-3).
Quanto alla più volte annunciata imminente fine del libro cartaceo, appare sempre più evidente che si tratta di false profezie. Sia perché è ormai assodato che pure i supporti elettronici sono deperibili, forse addirittura più del libro; sia perché, paradossalmente, il libro è di più agevole lettura. Insomma, per dirla con Umberto Eco, che non era certo un passatista: «Se ci fosse un black out abbastanza duraturo non potrei più usare alcuna memoria elettronica. Se pur avessi registrato nella mia memoria elettronica tutto il Don Chisciotte, non potrei leggerlo alla luce di una candela, su un’amaca, in barca, nella vasca da bagno, in altalena, mentre un libro mi consente di farlo anche nelle condizioni più disagiate» (U. Eco, Sulla labilità dei supporti, in Pape Satàn Aleppe, La nave di Teseo, Milano 2016, p. 353).