Lehman Trilogy è arrivata nelle librerie alcuni mesi prima di essere messa in scena da Luca Ronconi al Piccolo Teatro di Milano, nel 2015. Un’anticipazione che i critici teatrali hanno vivamente apprezzato, perché se avessero dovuto giudicare il testo di Stefano Massini basandosi sullo spettacolo curato dal celebre regista avrebbero preso delle tremende cantonate, per via soprattutto dei notevoli tagli (concordati peraltro con l’autore) e del fatto che un singolo attore poteva riunire in sé diversi personaggi. Circa due anni dopo la prima rappresentazione della trilogia è uscito il «romanzo/ballata» Qualcosa sui
Lehman, che riproponeva il testo teatrale aggiungendovi numerosi passaggi di carattere narrativo e descrittivo. Con quello che potremmo chiamare il «progetto Freud» le cose sono andate in altro modo. Pubblicato lo scorso novembre da Mondadori, il romanzo L’interpretatore dei sogni è stato ridotto e adattato da Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi, che è anche il regista dello spettacolo prodotto dal Piccolo Teatro e intitolato Freud o l’interpretazione dei sogni. A quando l’adattamento di Massini?
In quel «catalogo di umanissimi rebus» che è L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud (libro davvero «epocale», pubblicato nel 1900), il drammaturgo fiorentino ha visto «un portentoso materiale da tradurre in forma scenica». E poiché Freud dedica «pochissimo spazio alla descrizione dei sognatori», e non racconta «il dialogo maieutico che condusse a decifrare il rebus di ogni sogno», Massini ha deciso di ricostruire «arbitrariamente il percorso di scavo induttivo-deduttivo con cui Freud giunse a formulare i capisaldi della propria teoria». Così è nato L’interpretatore dei sogni, concepito come «falso storico di un quaderno di appunti» di cui Freud «ci racconta a più riprese l’esistenza, ma che nessuno ha mai potuto leggere». Protagonista del romanzo è dunque il medico viennese, che analizzando i propri sogni e quelli dei propri clienti (e anche quelli della moglie Martha) viene elaborando una tecnica di interpretazione volta a coglierne il significato latente, deformato dai meccanismi di condensazione e spostamento.
Come nel romanzo/ballata Qualcosa sui Lehman (che è interamente in versi liberi), nel romanzo L’interpretatore dei sogni (che è prevalentemente in prosa), Massini alterna – ma in modo meno sorprendente – generi letterari diversi: il diario, il monologo, la lettera, il dialogo teatrale, la sceneggiatura cinematografica. Scarsamente edotto come sono in materia di trattamento analitico, non mi azzardo a giudicare la plausibilità dei «percorsi di scavo» raccontati da Massini, specie nelle scene dialogate, che si svolgono per lo più nel famoso studio viennese della Berggasse. Mi limito a dire che alcune di queste scene mi sono sembrate persuasive e coinvolgenti.
Durante la prima mezz’ora di spettacolo ho temuto il peggio. Fabrizio Gifuni (Freud) che monologava spiccando le parole; la scatola scenica ideata da Marco Rossi (un parallelepipedo senza quarta parete, assai più lungo che alto e di colore grigio, con gli spigoli evidenziati da tubi al neon); la recitazione lenta degli attori che interpretavano i pazienti; le scritte riassuntive, anch’esse al neon, che comparivano in alto: come non pensare ad alcuni spettacoli ronconiani? E come non temere che al pari di non pochi spettacoli di Ronconi, anche quello di Tiezzi potesse diventare un induttore di tedio e di sbadiglio, o addirittura di sonno e brutti sogni?
Ma poi le cose sono migliorate: la macchina scenica ha funzionato alla perfezione; gli attori (tutti bravi nel caratterizzare i personaggi) hanno attenuato lo straniamento ronconiano; i loro movimenti, coreografati da Raffaella Giordano, mi sono sembrati non di rado affascinanti; i costumi di Gianluca Sbicca, bellissimi; le luci di Gianni Pollini, suggestive. Pregi indubitabili, e tuttavia insufficienti a eliminare la sensazione che il fantasma del defunto Maestro continuasse ad aleggiare dentro la scatola scenica. Né potevo impedire che mi tornasse più volte alla mente (non solo in relazione ai casi di alcuni pazienti o a quello dello stesso Freud) il verso di Auden che dice: «l’ombra del padre pesava come un’alpe».
E come ignorare– non solo di fronte alle figure umane con teste di coccodrillo già presenti in un altro spettacolo di Tiezzi – l’impressione di déjà vu? Quante volte, ad esempio, avevo già visto una parete con numerose porte tutte uguali, che erano al tempo stesso oggetti concreti e simboli o metafore del passaggio fra due luoghi o due mondi? Quante volte mi ero cercato in uno specchio simile a quello che alla fine raddoppia gli spettatori e riporta alla memoria le parole di congedo di un personaggio (e di un autore) secondo cui gli uomini e il teatro sono fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni?