Per raccontare l’intensità e il significato del romanzo di Sandrine Fabbri Domani è domenica bisogna partire dalla fine, da quel messaggio ultimo che è un inno alla vita, un invito a vivere, costi quel che costi, a non rinunciare mai perché vale sempre la pena rimanere e non partire. Definito dall’«Hebdo» «un’opera dalla bellezza nera e brutale», il romanzo, vincitore nel 2010 del Premio Pittard, uscito in italiano per Keller editore con la traduzione di Daniela Almansi, ripercorre la vita della scrittrice ginevrina e lo fa a due voci: quella della bambina di undici anni, testimone di una vicenda traumatica che sconvolgerà per sempre la sua esistenza, e quella della donna adulta che si getta cuore e mente in una ricerca, un’inchiesta sulla vita della madre che non ha mai avuto l’occasione di conoscere veramente.
Sylvia, bernese, una donna gioiosa, elegante, indipendente e bohémienne, a 29 anni incontra Natale Fabbri, alto, biondo, occhi azzurri, di origini slovene, giunto in Svizzera nel 1959, con un breve passaggio in Ticino, in fuga dalla Jugoslavia di Tito e in cerca di lavoro. Galeotto è il ballo in un Grand Hotel di Ginevra dove i due per la prima volta si incontrano, si innamorano e sulle note della musica scivolano via verso una vita insieme nella quale però, da lì a poco, si scontreranno due culture, due mentalità e due modi di vivere diversi.
A colpire e a sorprendere più di ogni cosa, a legare il lettore a doppio filo con il racconto, è la ricercata e cesellata scrittura di Sandrine Fabbri, in passato critica teatrale per il «Journal de Genève» e la «Gazette de Lausanne», poi corrispondente per il Feuilleton di «Le Temps» a Zurigo e traduttrice di penne come Lukas Bärfuss e Sibylle Berg. La sua prosa poetica fatta di frasi cortissime che all’improvvsio, prendono fiato e corrono via, aprono scorci improvvisi, scavano e amplificano voragini di un malessere esistenziale, anima il romanzo con una scansione narrativa serrata in cui la punteggiatura taglia e ferisce come fosse un affilato fendente ma, soprattutto, diventa testimone ed espressione degli stati d’animo convulsi di quella bambina ormai adulta, alla disperata ricerca della verità. Una verità che, a distanza di anni, rimarrà comunque colma di misteri umani, ma maturerà in lei una consapevolezza che nel romanzo si fa voce prendendo a prestito le parole del poeta francese Isidore Lucien Ducasse-Lautréamont: «Non mi lamenterò più. Ho ricevuto la vita come una ferita e ho proibito al suicidio di guarire la cicatrice. Voglio che il Creatore ne contempli, in ogni ora della sua eternità, il crepaccio spalancato».
E se da un lato Domani è domenica, sullo sfondo di una Ginevra tra gli anni Sessanta e Settanta, ricostruisce i frammenti di una storia famigliare sbriciolata, di un amore materno perduto proprio prima di quella partenza così attesa per le vacanze al mare in Italia, dall’altro racconta uno scorcio di storia europea quasi dimenticata: l’Istria italianizzata, il destino degli sloveni, la guerra dei Balcani.