«Questo romanzo contiene riflessioni, sentimenti e pensieri importanti ed io volevo che venisse preso molto sul serio, ma allo stesso tempo che fosse per il lettore un’esperienza speciale: una lettura rapida, sorprendente e piena di delizioso divertimento» ci ha confidato con piglio allegro Jonathan Lethem che abbiamo incontrato a Firenze, a fine giugno, alla presentazione del suo ultimo libro Il Detective Selvaggio (titolo scippato a Roberto Bolaño perché è quello che meglio «traduce» l’originale: The Feral Detective) edito da La nave di Teseo, e ha continuato: «Avevo in testa questa storia da molto tempo, ben prima delle elezioni del 2016, ma poi Trump è stato eletto e questo evento ha sprofondato molte persone in una improvvisa e violenta confusione. Così mi sono sentito sollecitato a indagare su dei temi “classici” per noi americani come il confronto uomo/donna; le migrazioni interne; la natura selvaggia e la civilizzazione, che però l’arrivo di Trump ha “illuminato” e fatto “lievitare” portandoli di colpo in primo piano».
Il viso simpatico, la folta chioma di riccioli neri striati di grigio pettinati in grandi onde ordinate, il cinquantacinquenne scrittore americano dallo stile eclettico, autore di vari libri tra cui Brooklyn senza madre e La Fortezza della Solitudine che gli hanno dato il successo, stavolta si è divertito a raccontare, con il ruvido linguaggio hard boiled, una detective story ambientata nel 2017, che è ben più di un noir ironico e sopra le righe. La protagonista è Phoebe Siegler una giornalista trentenne che si è appena licenziata dal «New York Times», colpevole di mostrarsi troppo arrendevole con il neo-eletto Presidente Trump, e, ancora traumatizzata, ha lasciato Manhattan per la California alla ricerca della figlia scomparsa di un’amica.
Unico indizio, la passione della giovane Arabella per Leonard Cohen, morto due giorni dopo l’elezione di Trump, e che aveva avuto un guru buddista sul Mount Baldy, non lontano dal college della ragazza, zona di vecchi hippy e nuovi survivalists. Ma lugubri presagi, oltre al magone che si porta dentro, convincono Phoebe a rivolgersi a Charles Heist, il detective selvaggio, una sorta di Marlowe locale stile cow boy, in stivali e usurata giacca di pelle rossa che, nel cassetto della propria scrivania invece della pistola tiene un opossum da compagnia, reperto di un caso precedente.
«Sono cresciuto leggendo i romanzi hard boiled, di Chandler, Hammett, e Ross Mc Donald che sono la culla della mia prosa» ci ha raccontato Jonathan Lethem. «Amo lo stile delle detective story, ma sono attratto soprattutto dagli archetipi, come la figura del detective, anche se stavolta lo volevo osservare dall’esterno. Perciò ho utilizzato uno degli inizi tipici di questi romanzi in cui c’è una donna che entra nell’ufficio del detective, ma dopo, invece di restare con lui e fargli raccontare i fatti, scelgo di seguire la donna e le sue elucubrazioni».
Malgrado la barba lunga, le basette, il naso grosso, le labbra carnose e la fossetta sul mento che Phoebe definisce «un solco», il detective selvaggio resta affascinante, anche se un po’ patetico e fragile. Lui è così vero in quel mix di mistero, sesso e violenza della storia, che però ha un sottofondo esilarante con Phoebe «arrabbiata e affamata» nel corpo e nello spirito che parla molto, come uno scaricatore e arraffa a piene mani ciò che trova, spietata e selvaggia più di chiunque altro.
La storia procede spedita con citazioni cinematografiche, letterarie e fumettistiche, tra montagne e lande deserte in mezzo a bande rivali di survivalists paranoici, facendo emergere con umorismo l’allegoria che vi si cela e fotografa l’America di oggi con tutti i suoi traumi. «La società americana è incapace di digerire ciò che la turba e diventa amnesica. Il significato della rivoluzione utopica del ’68; la creazione delle comuni; gli ideali della controcultura, sono tutti momenti di grande successo e di completo fallimento, come si può dire di molti dei grandi movimenti in America, come quello dei Diritti Civili». Jonathan Lethem si è messo a ridere e ha continuato: «Qualche volta penso a mia madre che era una hippie ed è morta nel 1978. Se oggi potessi avere cinque minuti per conversare con lei, le direi: “La buona notizia è che oggi i gay possono sposarsi, la marijuana è stata legalizzata ed abbiamo avuto un Presidente nero”. Sono sicuro che lei risponderebbe: “Allora le cose sono andate alla grande!” A quel punto io dovrei dirle: “Peccato che non sai la cattiva notizia!” Perché la contro-reazione a tutto questo è stata un vero incubo: prima con l’era Reagan e adesso l’era Trump. È quasi incredibile quanto la “risposta” ogni volta sia stata reazionaria, dirompente e fantasy. Sì perché quest’America che adesso si vorrebbe resuscitare, non è mai esistita. L’America, “grande” storicamente non lo è mai stata, salvo forse che per qualche “uomo bianco”, ma queste fantasie da cow boy e il “mito della frontiera” sono molto potenti».
In The Feral Detective i due protagonisti si spostano verso il «Confine Selvaggio», in una indagine più simile ad un pellegrinaggio, dove Heist, guidato da un «codice misterioso» entra in contatto anche con la più desolata geografia umana, mentre Phoebe lo tallona, lo provoca, lo spalleggia, fa sesso con lui, lo aggredisce. Lei newyorchese che «legge Elena Ferrante», dopo «l’evento che l’ha spezzata nel profondo», è alla disperata ricerca di una nuova mappa per andare avanti, di una nuova identità, come gli altri personaggi femminili del libro. «Nella “fantasia americana” c’è l’idea che l’identità sia qualcosa di solitario. Affermazioni come: devo scoprire chi sono; mi devo reinventare; diventerò famoso; o andrò nella natura selvaggia e creerò qualcosa di unico, da noi non sono solo battute da film» ci ha spiegato Lethem. «Adesso non per buttarla sempre in politica, ma Trump è un fantastico esempio dell’idea di una disastrosa identità americana: “è il grande impostore”. Per noi lui è ridicolo, ma nella sua mente, la sua storia è veramente grandiosa». Ha concluso con un sorriso simile a una smorfia.
È un libro molto serio Il Detective Selvaggio anche se è scritto come un divertissement, un noir che diventa un western e cela influenze letterarie diverse: da Herman Melville, a Tolkien, a J.G.Ballard. Arabella viene ritrovata, ma Lethem non ci ha risposto alla domanda se il «trauma Trump» corre il rischio di aggravarsi con le prossime elezioni.