La Toni-Molkerei di Zurigo, attualmente sede della Zürcher Hochschule der Künste (Wikipedia)

L'Hamburger Bahnhof di Berlino da ferrovia si è trasformato in un museo (Wikipedia)


Demolire o convertire creativamente?

In tutto il mondo si assiste sempre più spesso alla conversione della destinazione di edifici in disuso in centri culturali: e il Ticino dove si situa?
/ 10.06.2019
di Ada Cattaneo

Nel messaggio municipale 9992 pubblicato dalla Città di Lugano nel 2018 si legge: «Il complesso dell’ex Macello costituisce uno dei brani fondamentali dell’archeologia industriale di Lugano. Il carattere originale dovrà essere mantenuto quale testimonianza unica a Lugano». I giornali ne hanno scritto molto: il testo si riferisce a un concorso d’architettura per la riqualificazione di quest’area lungo il fiume Cassarate, che comprenderà una zona di nuova edificazione con alloggi per studenti e turisti, mentre è stato deciso di individuare un’altra area per le attività di autogestione. Quello che colpisce è che la parte storica del complesso verrà mantenuta e ospiterà «spazi per eventi e manifestazioni, per il co-working e aree di ristorazione», compreso un caffè letterario. Possiamo allora parlare finalmente anche in Ticino dell’affermarsi di una nuova e timida tendenza al riutilizzo degli spazi storici, piuttosto che alla loro cancellazione?

Nell’evolvere storico delle aree urbane e suburbane, fra nuove identità dei quartieri e cambiamenti dati dalla situazione economica, molti spazi architettonici erano stati edificati nel passato per soddisfare bisogni non più attuali e si trovano oggi svuotati della loro antica ragione d’essere. Vecchie stazioni, fabbriche in disuso, sale cinematografiche dismesse, masserie ormai circondate dai palazzi e dimore storiche in attesa di essere abbattute. Luoghi ormai inutilizzati. Oppure impiegati senza uno studio che ne evidenzi opportunità e problematiche. Così, a lungo termine, la scelta è spesso quella di cancellare queste emergenze architettoniche: il valore storico, se non tutelato dalla legge, cede il passo a quello puramente economico del sedime su cui si trovano gli edifici.

Ma un’alternativa esiste per i non molti spazi rimasti ancora da destinare: si tratta di una riconfigurazione, di un «riuso creativo». A prescindere dalla questione dell’autogestione, il caso dell’ex Macello lascia sperare che qualcosa stia lentamente cambiando a questo riguardo e che ci sia spazio, anche in Ticino, per quello che in architettura viene descritto come «utilizzo adattivo», un termine mutuato dall’inglese «adaptive reuse». La versione tedesca – «weiterbauen» – sembra essere quella più appropriata per definire lo stesso concetto. È questo uno dei meccanismi rivelatisi negli ultimi decenni fra i più efficaci nei percorsi di rigenerazione urbana, perché non comporta l’annullamento della connotazione originale del luogo, ma ne offre invece una lettura nuova, confacente – nei casi più riusciti – ai rinnovati bisogni dei cittadini.

Guardando al panorama del riuso architettonico spesso si scopre che è stata data molta importanza alla cultura. Negli ultimi anni si è capito infatti che – se ben utilizzata – la cultura può risolvere tanti dei problemi delle nostre città, ammortizzando conflitti e offrendo soluzioni alternative rispetto ai consueti scenari di scontro e conflitto. È un concetto proteiforme quello di «cultura», che si giova delle differenze e se ne nutre. Perciò nulla impedisce di collocare un teatro all’interno di un antico monastero oppure uno spazio per conferenze in un vecchio ufficio postale.

In Europa non si contano i casi emblematici per esemplificare questa categoria, soprattutto nelle grandi città. Vale la pena citare alcuni spazi culturali di comprovata fama: la Gare d’Orsay, oggi Musée d’Orsay, è stata sicuramente una delle prime e colossali realizzazioni in questa direzione. Ancora una stazione ferroviaria, l’Hamburger Bahnhof, è stata trasformata nel più importante museo d’arte contemporanea di Berlino. Stesso uso per l’Hangar Bicocca di Milano, già luogo di produzione di locomotive e grandi macchinari elettrici di Ansaldo Breda. La Tate Modern di Londra, nell’edificio della ex centrale termoelettrica di Bankside, è oggi un luogo di consacrazione per gli artisti chiamati a realizzare installazioni site specific nella smisurata sala delle turbine. Su un fronte meno solenne, il club techno Berghain Panorama di Berlino, in una vecchia centrale nella zona fra i quartieri di Kreuzberg e Friedrichshain, è una delle più interessanti discoteche d’Europa.

La Svizzera non è per nulla arretrata su questo fronte. Basti pensare alla sede Uni Tobler dell’Università di Berna, ricavata nella vecchia fabbrica di cioccolato. Zurigo, sull’esempio di Berlino, è la città che annovera più esempi di riuso urbano. I più celebri sono probabilmente i quartieri Toni Areal e Löwenbrau Areal di Zurigo. Nel primo la vecchia sede della Toni-Molkerei oggi ospita la Zürcher Hochschule der Künste e nel secondo – già sede dell’omonimo birrificio – si concentrano i più significativi attori della scena artistica contemporanea della città.

In Ticino, come anticipato, quella del riuso architettonico creativo non è una modalità molto diffusa, ma in realtà ci sono alcuni esempi da considerare. Lo Spazio –1 di Lugano, che ospita oggi la raccolta di Giancarlo e Danna Olgiati, era inizialmente un deposito e garage, mentre oggi è allestito secondo gli standard di sicurezza e di climatizzazione necessari per mostre temporanee e per la conservazione delle opere d’arte contemporanea che i due collezionisti hanno voluto destinare alla città.

Lo spazio espositivo Rada di Locarno è stato a lungo ospitato nelle vecchie scuole comunali, oggi trasformate in Palazzo del Cinema. Anche il museo Villa dei Cedri di Bellinzona era una dimora privata, così come Villa Saroli e Villa Ciani a Lugano. L’utilizzo di Villa Heleneum, sede del Museo delle Culture prima del trasferimento a Villa Malpensata, è invece oggi in corso di definizione, ma sembra che la finalità culturale non verrà messa in discussione. Mentre la fabbrica Cimanorma in Valle di Blenio è oggi sede della fondazione culturale Fabbrica del Cioccolato e di alcuni atelier per artisti e architetti. Interessante è il caso della Filanda di Mendrisio, sede della Biblioteca Cantonale.

Sul versante dell’iniziativa privata, la Tipografia Helvetica di Capolago ebbe un ruolo importante nella promozione delle idee risorgimentali, con la stampa di materiali da parte degli esuli italiani in Ticino. Oggi è la splendida galleria privata Casa d’Arte Miler. Ma ci sono alcuni edifici essenziali per la storia del cantone, che ancora aspettano una risposta: uno per tutti, la sede della Radio della Svizzera italiana a Besso, progetto congiunto degli architetti Alberto Camenzind, Augusto Jäggli e Rino Tami, notevole per le sue peculiarità progettistiche, sviluppate specificamente per il lavoro su musica e radiofonia. Il progetto di riutilizzo più auspicabile prevede la creazione di una «cittadella della musica» che comprenda questo edificio, oltre al Conservatorio e alla Fonoteca Nazionale.

Altro spazio che ancora aspetta una destinazione è la centrale AIL di Gemmo a Breganzona, presa in considerazione come sala prove per la Compagnia teatrale di Daniele Finzi Pasca. Non sembrano esserci più speranze invece per il garage Morel, proprio dietro il LAC, che nell’attesa della demolizione ospita uno spazio espositivo indipendente. Un destino più promettente aspetta l’ostello della gioventù di Figino, chiuso nel 2018 e acquisito dalla Fondazione Claudia Lombardi per il teatro che coniugherà la vocazione turistica del luogo con l’incoraggiamento alle nuove generazioni di teatranti svizzeri e internazionali.

Ma cosa comporta adattare piuttosto che costruire ex novo? Significa adeguarsi a quello che il luogo propone, senza imporre un’idea preconcetta; vuol dire leggere la memoria, mentre si fa un passo indietro per capire meglio ciò che ci circonda; richiede ascolto e osservazione piuttosto che imposizione. Dal punto di vista economico non rappresenta un’opzione più conveniente, perché adattare gli edifici storici ai moderni standard di sicurezza comporta un grande dispendio di energie. I benefici si presentano però su altri fronti, dalla sostenibilità ambientale alla tutela dell’identità, dal rispetto del retaggio architettonico alla valorizzazione delle peculiarità territoriali.

Nel caso degli spazi culturali, i vantaggi sono ancora superiori e motivano il successo odierno del riuso creativo. Esso non richiede la costruzione a tavolino di un’identità nuova, ma sfrutta invece la familiarità, la patina di vissuto e il fascino che l’edificio offre.

Per quanto riguarda il caso specifico dei musei di arte contemporanea, oggi molti artisti prediligono spazi che mostrino il loro passato. Tale approccio nasce come reazione al fatto che, fin dagli anni Settanta e per alcuni decenni, sia stata preponderante la concezione di museo come «white cube»: una scatola asettica entro cui, secondo l’opinione allora predominante, l’opera poteva esprimersi senza venire condizionata dal contesto. Era una scelta obbligata, che ha avuto esiti anche recenti in molti dei musei realizzati fino a pochi anni fa e che oggi rischiano di apparire obsoleti. Il riflesso a questa tendenza è quindi quello di prediligere spazi che abbiano avuto destinazioni precedenti e che non siano nati come musei.

Sir Nicholas Serota, direttore della Tate dal 1988 ha spiegato nel corso di un’intervista come gli artisti, in questi luoghi, siano richiamati dal potere del luogo e rispondano con la loro opera alla fascinazione che ne subiscono.

Tutto questo sembra far presagire che gli edifici – proprio come noi – possano imparare dal loro vissuto, traendone il carattere che solo il tempo concede, ma senza il rischio di rimanere arenati nel ricordo di vecchie glorie.