Se dovessimo scegliere un’immagine che riassuma il Festival del Settantesimo, sarebbe proprio quella del suo compleanno. Vi si vedono schierati, praticamente abbracciati sull’ormai abusato tappeto rosso, tante figure dalla rigorosa tenuta di gala. Sono i festeggiati, i laureati in gran parte gloriosi, i registi e attori della storia di Cannes. Monumenti dell’arte cinematografica, qualcuno un po’ corroso dal tempo, quasi tutti di sesso maschile. Profili granitici: con attorno, o meglio ai loro piedi, la folla munita di smartphone.
Da una parte la celebrazione dei grandi nomi che hanno contribuito all’egemonia di Cannes; dall’altra l’agitazione isterica, ma anche l’immenso potenziale rappresentato da milioni di spettatori sparsi nel mondo. Cannes ha voluto (in parte dovuto) fare a meno quest’anno della presenza di coloro che – un po’ perfidamente – vengono definiti i suoi abbonati. Con risultati più che dubbi. Perché i più celebri fra i presenti hanno, chi più chi meno, deluso; presentando opere involute, meno compiute delle precedenti, anche se illuminate talvolta da ispirate intuizioni. Il confronto tra la selezione di quest’anno, già definita un po’ imprudentemente «laboriosa» dal direttore Thierry Frémaux, e quella formidabile del 2016 con la sua mezza dozzina di capolavori e altrettante rivelazioni, è impietoso. Questo anche perché i film dei vari Michael Haneke, Todd Haynes, Jacques Doillon, Sergei Loznitsa, Kornel Mundruczo e dello stesso Roman Polanski (seppure fuori concorso), hanno dimostrato come la presenza di qualche maestro affermato non rappresenti ormai più la soluzione di ogni magagna. Anche per Cannes, assieme a tutto ciò che finora abbiamo definito cinema, è giunto il tempo di affrontare decisioni radicali anche se dolorose.
Non a caso, infatti, il sentimento dominante è stato quello di una sorta d’indifferenza, se non di rassegnazione nei confronti di quelle che forse sono state solamente sfortunate scadenze di calendario. L’aspetto per così dire disfunzionale del festival è però ben più profondo, affligge infatti il sistema stesso. Nei festival cinematografici ci sono sempre state dispute intorno alle «stellette», di per sé già controproducenti per la credibilità di tutto un ambiente. Succedeva così che la stessa pellicola si vedesse assegnare, a seconda di umori, provenienze culturali o politiche, etichette che variavano dal capolavoro al disastro. L’interrogativo che più o meno subdolamente sembra nascere tra gli addetti ai lavori non concerne più la relatività o i rischi dei giudizi dei critici, quanto più le probabilità che un film avrà di essere distribuito e dunque visto.
Alimentato dalla polemica su Netflix della quale ci siamo già occupati nei numeri precedenti, è ormai chiaro quanto il problema della distribuzione e del consumo del prodotto cinematografico sia ormai giunto al cuore di manifestazioni dal successo apparentemente garantito come i festival. Il destino assurdo dei film (e parliamo della maggior parte!) è che solo pochi li vedranno: centinaia di progetti o pellicole addirittura già terminate non troveranno mai la via della distribuzione. Prigioniero di regole e prescrizioni che lo condizionano assieme ai suoi operatori dai tempi remoti dell’avvento della televisione (e che ne influenzano l’estetica stessa), il cinema è costretto a snellire in modo drastico e velocemente il percorso che lo conduce fino al consumatore.
Queste considerazioni pratiche hanno ridimensionato i litigi artistici. Le delicate questioni della relativa modestia della qualità della competizione, in aggiunta alla dispersione dei film nelle varie sezioni e rassegne di una manifestazione pachidermica, hanno infatti finito per passare in secondo piano «grazie» alle molte difficoltà logistiche.
Archiviate nei numeri precedenti parte delle opere premiate (a cominciare dalla Palma, giustamente assegnata allo spasso ma pure all’intelligenza di The Square) occorre sottolineare il controverso ritorno di Sofia Coppola con L’inganno, sensibile indagine dell’animo femminile. Riuscita è anche la non facile trasposizione in commedia disinvolta di un personaggio ostico come Godard – operazione che dobbiamo a Michel Hazanavicius che a Cannes ha presentato Redoutable. Vi è poi stata l’esplosione formale, ma soprattutto l’interpretazione di un incredibile Joaquin Phoenix ingrassato di trenta chili, di You Were Never Really Here di Lynne Ramsey. Oppure la brillante disinvoltura estetica, per quanto non esattamente gratuita, di François Ozon in Amant double. O ancora, per finire, l’intimismo inimitabile nell’approccio al presente di Noemi Kawase in Radiance.