Costretti a partire

In una lettera alla madre, Seneca analizza le ragioni che portano a migrare – Terza parte
/ 05.08.2019
di Elio Marinoni

Le migrazioni causate, nel mondo classico, da guerre internazionali o da conflitti intestini, di cui ci siamo occupati nelle prime due puntate, sono quelle che presentano le maggiori analogie con i flussi migratori dall’Africa e dal vicino Oriente verso l’Europa che contrassegnano in modo sempre più drammatico i nostri tempi. Già nella letteratura classica vengono tuttavia individuate altre cause dei fenomeni migratori, come la pressione demografica, le catastrofi naturali, la povertà.

Un tipico caso di migrazione di massa causata dalla sovrappopolazione è il tentativo posto in atto dagli Elvezi nel 58 a.C. di trasferirsi a Occidente del Rodano, al quale si oppose Cesare – anche attraverso la costruzione di una muraglia di 19 miglia dal lago Lemano al monte Giura (Cesare, La guerra gallica, I, 8, 1): corsi e ricorsi della storia! – per tutelare gli interessi della provincia romana della Gallia Narbonese e di alcune popolazioni galliche ancora formalmente indipendenti ma alleate di Roma: si tratta del cosiddetto bellum Helveticum («guerra contro gli Elvezi»), la «madre» di tutte le campagne galliche, descritta nel I libro del De bello Gallico (2-29). Dopo aver osservato che «in ogni direzione gli Elvezi sono rinserrati dalla configurazione del territorio» (La guerra gallica, I, 2, 3), l’Autore ci informa che essi «ritenevano che i territori in loro possesso, che si estendevano per 240 miglia in lunghezza, per 180 in larghezza, fossero angusti in rapporto alla densità della popolazione, come pure alla fama del loro valore militare» (La guerra gallica, I, 2, 3).

La più ampia disamina delle cause dei movimenti migratori e delle loro modalità di svolgimento si deve però a Seneca. In una sorta di lunga lettera indirizzata alla madre per consolarla dell’esilio in Corsica inflittogli dall’imperatore Claudio, il filosofo stoico, dopo aver argomentato sull’affinità tra esilio e migrazioni, che egli definisce «esili di massa» (Alla madre Elvia, della consolazione, 7, 6), oltre ai conflitti internazionali e intestini e alla sovrappopolazione individua altre cause delle migrazioni nelle catastrofi naturali, nell’insalubrità o nell’improduttività del territorio, nel miraggio di una terra più ricca.

Dopo avere analizzato (capp. 6-7) la storia demografica del Mediterraneo, e in particolare della Corsica e della città di Roma, che non solo è abitata da una grande pluralità di etnie, ma – come dirà più avanti (Alla madre Elvia, 7, 7) – «vede il proprio fondatore in un esule» (si tratta ovviamente di Enea), l’Autore così prosegue: 

«Per luoghi impraticabili ed ignoti si è riversata l’umana mobilità. Si trascinarono appresso i figli e le mogli e i genitori appesantiti dalla vecchiaia; alcuni, sballottati da una lunga peregrinazione, non scelsero un luogo a ragion veduta, ma occuparono per stanchezza il più vicino; altri si conquistarono con le armi il diritto di risiedere in una terra straniera; certe genti, mentre si dirigevano verso l’ignoto, le inghiottì il mare; altre si stabilirono là, dove la mancanza di ogni mezzo le piantò in asso.

Né tutti ebbero il medesimo motivo per abbandonare la patria e cercarne un’altra: alcuni, sfuggiti alle armi nemiche e spogliati del proprio, furono gettati sull’altrui dalla distruzione delle loro città; altri furono sloggiati da un conflitto intestino; altri si videro costretti a emigrare dall’eccessiva densità della popolazione, allo scopo di alleggerirne gli effettivi; altri furono espulsi da una pestilenza o dai frequenti terremoti o da qualche altra intollerabile magagna di una terra infelice; certuni si lasciarono sedurre dalla rinomanza di una contrada fertile e fin troppo magnificata» (Alla madre Elvia, 7, 2-5).

È appena il caso di sottolineare la straordinaria modernità e attualità di questa fenomenologia della migrazione. Ma per Seneca i movimenti migratori si inquadrano nel più ampio fenomeno dei processi di formazione e di trasformazione degli Stati, caratterizzati da un incessante mutamento:

«Diversi motivi hanno attirato ciascuno fuori dalla patria, ma questo in ogni caso è chiaro: nulla è rimasto nello stesso luogo in cui è nato. Incessante è il peregrinare del genere umano; ogni giorno qualcosa cambia in un mondo così grande: si gettano le fondamenta di nuove città, sorgono nuove denominazioni di popoli, quando i precedenti si estinguono o si trasformano nell’appendice di uno più forte» (Alla madre Elvia, 7, 6).

Seneca perviene così al superamento del concetto di autoctonia, così radicato nel pensiero greco (e in particolare ateniese) arcaico e classico: «A fatica troverai una terra che sia ancora abitata dagli indigeni: tutto è il prodotto di mescolanze e incroci» (Alla madre Elvia, 7, 10).