Dove e quando

Milano, Piccolo Teatro Grassi, fino al 22 aprile. www.piccoloteatro.org


Cosa si dissero Heisenberg e Bohr?

Copenaghen di Michael Frayn, di nuovo in scena 18 anni dopo con gli stessi interpreti
/ 16.04.2018
di Giovanni Fattorini

L’opera teatrale più nota di Michael Frayn (Londra, 1933) è quasi certamente Noises Off (Rumori fuori scena, 1982), virtuosistico saggio di teatro nel teatro, che in Italia fu rappresentato per la prima volta nel 1983 – con esito memorabile e ineguagliato – dalla Cooperativa Attori e Tecnici diretta da Attilio Corsini, a giudizio del quale la commedia di Frayn si poteva definire «una terapia in tre atti per compagnia teatrale». Perché terapia? Perché metterla in scena significava confrontarsi con «la nevrosi a circuito chiuso del fare teatro, con i vizi e i vezzi dei teatranti». Lo spettacolo ebbe un tale successo di pubblico e di critica che rimase nel repertorio della Cooperativa per 15 anni. Michael Frayn, da parte sua, ne diede un giudizio così positivo che allorché Peter Bogdanovich (il regista di Paper Moon e The Last Picture Show) si accinse a girare una trasposizione cinematografica dell’esilarante commedia, gli consigliò di volare in Italia per vedere lo messinscena di Corsini (il film uscì nel ’92, e per varie ragioni deluse non poco chi aveva apprezzato fino all’entusiasmo la versione scenica degli Attori e Tecnici). 

Quasi altrettanto nota è Copenaghen, commedia di ben diverso carattere, rappresentata per la prima volta a Londra nel 1998, e in Italia nel ’99, con la regia di Mauro Avogadro. Diciotto anni dopo il suo applauditissimo debutto, lo spettacolo è stato ripreso con gli stessi interpreti, ed è attualmente in scena a Milano, al Piccolo Teatro Grassi, dove era approdato nel 2001. 

Copenaghen prende spunto da un fatto realmente accaduto. La sera del 17 settembre 1941, nella capitale danese occupata dai nazisti, il fisico Werner Heisenberg (che era alla testa del programma nucleare tedesco) si recò a cena in casa del suo ex maestro Niels Bohr e della di lui moglie Margrethe. Che cosa si dissero in quell’occasione i due scienziati (entrambi ebrei e premi Nobel per la fisica), ai quali si deve la formulazione, rispettivamente, del principio di indeterminazione e del principio di complementarità? Le testimonianze al riguardo – anche quelle fornite dai due interlocutori – sono ambigue e reticenti. Al punto da tentare Michael Frayn a proporre alcune ipotesi. Spostandosi avanti e indietro nel tempo, prima e dopo la sera del 17 settembre 1941, nell’incontro immaginato dal commediografo inglese i due fisici parlano sia di fissione nucleare e scelte morali dello scienziato, sia di fatti personali (tra cui la morte per annegamento di un figlioletto dei Bohr), trapassando dal più o meno forte coinvolgimento emotivo al distanziamento ironico al tono impersonale della narrazione oggettiva e dell’esposizione didattica. Al colloquio (quello che si svolge tra le pareti domestiche, non quello avvenuto all’esterno, nel giardino) assiste e partecipa la moglie di Bohr, Margrethe, che si oppone a ogni ipotesi di collaborazione tra il marito e il suo ex allievo. 

I rapidi spostamenti cronologici sono giustificati da ciò che viene chiarito fin dall’inizio: i tre personaggi, ormai morti, propongono versioni in parte divergenti del loro lontano incontro in quanto abitanti non pacificati di un imprecisato oltremondo, che nella bella scenografia di Giacomo Andrico ha le apparenze di un’aula di fisica, i cui arredi sono tre sedie metalliche e alcune lavagne, disposte a varia altezza e coperte fin dal principio di formule, alle quali Bohr e Heisenberg ne aggiungeranno di quando in quando delle altre, fino a quella immediatamente seguita da una luce intensissima e da un fragore che fa tremare la scena: emozionante evocazione della «sfera di fuoco» e dell’onda d’urto prodotte dall’atomica sganciata su Hiroshima.

L’evidenziazione degli scarti temporali e dell’alternanza dei momenti di partecipazione e straniamento dei personaggi - perseguita anche attraverso la rigorosa concertazione dei movimenti e dei mutevoli rapporti di prossimità e distanza degli interpreti – contribuisce in misura notevole a variare il ritmo della rappresentazione. L’intelligenza e la sensibilità del regista Mauro Avogadro sono grandi. Ma il coinvolgimento profondo e costante dello spettatore lo si deve anzitutto alla recitazione dei magnifici attori, che sono, come nel 1999, Umberto Orsini (Bohr), Giuliana Lojodice (Margrethe), Massimo Popolizio (Heisenberg). Alla fine, applausi prolungati e acclamazioni, anche per l’autore venuto da oltre Manica: un signore alto e magro, che molto elegantemente si è fatto vedere per non più di un minuto sotto il boccascena, ed è tornato subito al suo posto, in platea, con passo svelto e un’espressione soddisfatta.