Cosa si nasconde dietro l’etichetta «performing art»? Il termine è fluttuante, si ramifica e muta con il tempo. Le istituzioni di aiuto finanziario, fondamentali per la sopravvivenza dell’arte (e degli artisti), non sanno spesso come classificare questa pratica, sorta d’ibrido che ingloba differenti espressioni artistiche ed il cui risultato non assomiglia a niente di conosciuto. Certamente il corpo, inteso come strumento per esprimere la propria umanità e identità, è il suo fondamento essenziale in quanto la presenza fisica dell’artista garantisce l’esistenza stessa dell’opera. Malgrado le varie correnti e le differenti mutazioni nel tempo la performance si è imposta come una forma d’arte che esprime attraverso il corpo un rigetto dell’omologazione.
Nel caso della performing art il pubblico è spesso confrontato con un avvenimento che per sua natura rompe i tabù mettendo in questione l’ordine prestabilito. Tantissimi i performer che nel passato, anche nella ridente Svizzera, hanno messo alla prova i nervi dei benpensanti, basti ricordare l’internazionalmente riconosciuto Dieter Meier dei Yello, l’ormai super star Roman Signer, la giunonica Manon e la sua corporalità in costante mutazione o ancora il carismatico e misterioso Urs Lüthi che amava scombussolare proponendo agli spettatori un’identità sessuale volutamente ambigua e seducente. La performance rappresenta per molti artisti plastici un mezzo inedito, rapido e diretto per reagire ai cambiamenti, inglobando il pubblico nelle loro riflessioni sull’arte e il mondo. Fra gli artisti o i collettivi che si esibiscono in Svizzera negli anni ottanta e che vogliono fare tabula rasa dei valori borghesi troviamo: Bataks, Walter Pfeiffer (fotografo e videomaker di fama mondiale), Christian Philippe Müller o i collettivi Minus Delta T e Black Market (diventato in seguito Black Market International). Nel decennio successivo i performer diventano invece porta parola di una violenta rimessa in questione dell’onnipotenza della medicina e della classica dicotomia uomini/donne (gender studies), senza dimenticare le riflessioni sul concetto di identità nazionale e etnica e sui nuovi media. Tra i porta bandiera di questa nuova generazione troviamo l’austriaco, bernese d’adozione, Gerhard Johann Lischka (filosofo e curatore), i docenti e gli allievi della F+F School for Art and Media Design Zürich, l’influente artista, educatore, organizzatore di festival (e molto altro ancora) Norbert Klassen o ancora, a Ginevra, il pioniere della «danza alternativa» Yann Marussich e l’eclettica artista spagnola, anche lei svizzera d’adozione, La Ribot. Se agli inizi la performing art è considerata come un’arte marginale la situazione è decisamente mutata col tempo. Questa si impone oggi con forza nei musei, nelle gallerie d’arte e nelle fiere internazionali, una trasformazione avvenuta grazie agli sforzi dei numerosi artisti che hanno saputo valorizzarla e teorizzarla attraverso festival e conferenze.
La Svizzera è stata da sempre terra di grandi performers, questo è un fatto ormai acquisito. Quello che è più difficile da valutare è invece l’impatto che questi hanno avuto (e continuano ad avere) sulle nuove generazioni. In breve: cosa rimane nel nostro paese di questa forma d’arte sovversiva e innovativa? In Svizzera le scuole d’arte e i festival dedicati alla performing art (pura o influenzata dal teatro o dalla danza contemporanea) sono numerosi e qualitativamente sorprendenti. Per quanto riguarda la Romandia La HEAD di Ginevra, che propone un Bachelor in arti visive con indirizzo Action/Interaction, sorta di laboratorio interdisciplinare dove gli studenti sperimentano usando corpo, voce, video, suono, immagine e testo, fa sicuramente sicuramente parte dei primi della classe. Anche lui di ottimo livello ma questa volta in Svizzera tedesca troviamo il Master Extended Theater di Berna (Hochschule der Künste), maggiormente improntato sul teatro ma permeabile alle altre arti della scena. Unico a livello internazionale questo Master offre agli studenti la possibilità di far conoscere il loro lavoro al di fuori del territorio elvetico avvalendosi di competenze transdisciplinari che vanno ben oltre l’idea di teatro nel senso classico del termine. Tra i professori invitati troviamo performers di fama internazionale quali Ivo Dimchev, la compagnia Peeping Tom, Felix Kubin e François Chaignaud. Un bouquet di personalità complesse ed allettanti alle quali ispirarsi. Il teatro nel senso ampio del termine (multimediale e multimodale) è messo in avanti anche all’Accademia Dimitri di Verscio, vero e proprio campus universitario immerso nella natura dedicato alle arti della scena. L’indirizzo Physical Theatre offre agli studenti un percorso multidisciplinare al fine di esplorare la propria individualità artistica. La ZHdK di Zurigo e La Manufacture di Losanna sono invece le due uniche scuole d’arte svizzere a proporre un Bachelor in danza contemporanea. A Losanna la direzione della scuola è affidata a Frédéric Plazy mentre il Bachelor in danza è diretto da Thomas Hauert, coreografo di fama internazionale formatosi alla Codarts di Rotterdam, ex ballerino della famosa compagnia Rosas di Anne Teresa De Keersmaeker e insegnante dell’altrettanto famosa scuola P.A.R.T.S. diretta dalla stessa De Keersmaeker a Bruxelles. I tre anni di Bachelor prevedono una fitta rete di collaborazioni proprio con P.A.R.T.S. e con l’Università di Berna (dipartimento di studi tetrali e coreografici).
Per quanto riguarda invece i festival che mettono le arti performative sotto i riflettori ritroviamo tra gli altri il Festival Balluard Bollwerk di Friborgo, il BONE Performance Art Festival di Berna, La Bâtie Festival e l’Antigel di Ginevra, il Far° di Nyon o ancora Les Urbaines di Losanna e il ticinese Performa Festival. Basilea accoglierà invece alla fine di quest’anno PerformanceProcess, una rassegna unica nel suo genere che si svilupperà su cinque mesi. La ricchezza e la diversità della performing art svizzera dal 1960 ai giorni nostri sarà celebrata attraverso una cooperazione inedita tra il museo Tinguely, Kaserne Basel e la Kulsthalle di Basilea, in partenariato con il Centro Culturale svizzero di Parigi e con il sostegno della città di Basilea. Performance Process Basel metterà in luce la ricchezza delle pratiche performative svizzere da un punto di vista storico ma non solo. L’attenzione sarà in effetti portata sull’avvenire di questa pratica attraverso produzioni di artisti emergenti e già affermati.
Il Centro Culturale Svizzero di Parigi è sempre stato attivo nella promozione della scena performativa svizzera anche grazie al suo festival Extra Ball, quest’anno curato da Patrick de Rham et Ysaline Rochat dell’insolente festival Les Urbaines di Losanna. Gli artisti presenti hanno trasformato negli anni la manifestazione in un appuntamento imperdibile per gli amanti delle arti della scena. L’ultima edizione ha visto sfilare il provocante e sensuale Lukas Beyeler con la sua performance di tre ore e un quarto Parodius, con Ivan Blagajcevic, François Sagat e il ticinese Rocco Schira, Raphael Defour e la sua performance autobiografica e radicale Da Love Tape tra delirio pop noise e intimismo adolescenziale, Laetitia Dosch con il suo one woman show Un album, una messa in scena toccante e umana impegnata di umorismo e Daniel Hellman che parla al pubblico delle sue esperienze in quanto prostituto nello spettacolo Traumboy, interrogando così la morale, le paure e i preconcetti di una società iper capitalista e sessualizzata. Senza dimenticare la radicale artista vodese Anna Rochat che con la video performance Doris Magico, Back on the Wall presenta al pubblico un condensato dei suoi lavori. La performer romanda mette il corpo al centro della sua ricerca artistica, tra fisicità e tensione psicologica. Tanti appuntamenti imperdibili insomma che dimostrano quanto le nuove leve della performing art siano agguerrite. Aspettiamo con ansia la prossima mossa.