La fotografia concettuale viene inizialmente concepita nella mente del fotografo e poi realizzata per comunicare tale visione. È un’opera che si colloca all’opposto del fotogiornalismo, in cui il fotografo cattura immagini reali, quel che avviene in un preciso momento. Si tratta di comunicare un concetto, di ottenere un risultato specifico nella mente di chi guarda. Usa spesso e volentieri simboli grafici o metafore visive per rappresentare idee, paradossi, stati d’animo. Tramite oggetti reali e concreti esprime concetti che possono non aver nulla a che fare con il loro senso quotidiano; rappresenta una parte per il tutto o esprime un concetto traslando il suo significato su qualcos’altro.
Che chi interpreta la fotografia concettuale come un movimento legato a un arco temporale preciso, tra gli Anni 60 e 70 del secolo scorso (ma parecchi studiosi concordano nel definire quale prima «foto concettuale» un’immagine di Marcel Duchamp, Piston de courant d’air, datata 1914!), durante il quale nel mondo artistico occidentale si manifesta una crisi dell’oggetto pittorico e scultoreo.
Sono parecchi gli artisti che iniziano allora a utilizzare media tecnologici quali la fotografia, il cinema o il video. Non è quindi un caso se alla Photographica FineArt Gallery di Lugano molte opere esposte portino il nome di artisti figurativi o scultori. Camere in prestito presenta infatti nomi quali Vincenzo Agnetti – antesignano con Piero Manzoni dell’arte concettuale tout court e non solo fotografica – Mario Schifano, personaggio imprescindibile nell’ambito della pop art azzurra (presente con un ritratto di Andy Warhol datato 1964); e ancora gli scultori Giuseppe Penone e Gilberto Zorio e l’artista multimediale (si è occupato anche di musica elettronica sperimentale) Maurizio Nannucci.
Non poteva certo mancare Franco Vaccari, forse il profeta maggiore della foto concettuale italiana, divenuto celebre nel 1972 quando partecipò alla Biennale di Venezia con Esposizioni in tempo reale. Nella sala a lui riservata comparivano una foto dell’artista e la scritta «La scia una traccia del tuo passaggio». Al termine della Biennale le pareti della sala erano completamente ricoperte da strisce di fotografie attaccate dai visitatori, formando un’opera cresciuta man mano sino a diventare – secondo lo stesso Vaccari – «un organismo sensibile a tutte le influenze dell’ambiente». Ma soprattutto l’artista non era più il produttore unico dell’opera posta di fronte a uno spettatore passivo, bensì colui che innesca un evento senza poterne prevedere i risultati.
C’è indubbiamente una componente ludica nell’agire degli artisti concettuali. Bruno di Bello, ad esempio, rivisita il celebre Violon d’ingres di Man Ray sistemando orizzontalmente sulla schiena della modella nuda la chiave di violino che nell’originale era posta in verticale. Lo stesso Di Bello (Torre del Greco 1938) ci offre un collage su tela emulsionata quale originalissimo ritratto di Gloria Swanson, celebre diva del cinema muto. Il già citato Agnetti realizza invece le sue Photo-graffie strapazzando il negativo vuoi con segni in assoluta libertà, vuoi con forme geometriche precise.
Della spezzina Ketty La Rocca (prematuramente scomparsa a soli 37 anni nel 1976) possiamo ammirare un lavoro di «decostruzione» dell’immagine fotografica: partendo dal ritratto di due ragazze proveniente dagli sterminati archivi Alinari, ricostruisce la silhouette delle due giovani con una delle sue poesie visive, altra particolare forma artistica il cui lessico proviene dall’ambito della comunicazione di massa, dai quotidiani, dai rotocalchi, dalla pubblicità o dai fumetti, e che tenta di trasmettere il proprio messaggio tramite la fusione di immagini e parole miscelate in una sorta di collage che vada al di là delle parole ma anche dell’immagine intesa come forma d’arte.
Da segnalare infine l’importante presenza nell’esposizione di Paolo Gioli con tre «Polaroïd» e di Franco Vimercati con le sue Rose per Carla.