«Ed hanno pure in questo genere di scritture non poco adito all’eloquenza. Quella stessa felice disposizione al ben parlare che rende accetto al malato piuttosto uno che l’altro medico, quella stessa rende preferibile, riferita allo scrivere, i consulti dell’uno a quelli d’un altro».
Nel popoloso e disomogeneo mondo delle scienze naturali e di quelle esatte, la medicina ha, dal punto di vista della comunicazione, doveri e responsabilità decisamente superiori a quelli delle altre discipline. I medici hanno, insieme ai redattori dei foglietti illustrativi dei farmaci, un dovere comunicativo che impone loro di conoscere e sapere usare diversi canoni, diverse varietà della loro stessa lingua specialistica; perché ne va della salute dei loro interlocutori principali. I contesti nei quali i medici operano impongono che essi sappiano parlare con precisione e oggettività, assicurando comprensibilità a innumerevoli destinatari: ai colleghi, alla ricerca su libri e riviste, al mondo dell’università degli studenti e dei manuali e, in ultima analisi, al paziente. Il discorso sarà, di volta in volta, scientifico specializzato, divulgativo, pedagogico, ufficiale, colloquiale, e i suoi caratteri generali eviteranno le ambiguità e saranno coerenti dal punto di vista logico; preferibilmente non porteranno sentimenti e stati d’animo, privilegiando tutt’al più e tra le righe un po’ di sana e utile empatia.
Il repertorio si compone di più varietà di lingua, ma anche di più codici linguistici. Perché il linguaggio della medicina preso in astratto e sul piano generale ha una sua precisa identità, sa da dove viene e dove va: ha il latino e il greco come basi lessicali storiche e l’inglese come inevitabile orizzonte contemporaneo. Di più, esso deve ricorrere alle lingue nazionali per il nodo comunicativo terminale, quello con il paziente, ma anche per la manualistica scolastica e universitaria, la documentazione ospedaliera e per tutta una serie di domini che sono centrali magari per altri ambiti, come per esempio quello della medicina aziendale o quello della medicina legale.
È fuori discussione che la parte più sensibile sia rappresentata dal lessico. In uno dei migliori lavori in assoluto dedicati al linguaggio della medicina (un libro di un quindicennio fa intitolato Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente), il linguista Luca Serianni calcolava che la terminologia medica o di ambiti affini rappresentava in un dizionario importante come il Sabatini Coletti circa il 5,5% delle entrate (una parola su venti), più o meno il totale delle parole di fisica, matematica, geometria, statistica, biologia e chimica messe insieme. Il lessico è anche però la parte più esposta e molle del sistema linguistico, una sorta di buccia che cede più debolmente alle lusinghe e alle seduzioni dell’inglese; il che può andare benissimo per il medico-ricercatore e malissimo per il medico di famiglia, quello che deve spiegare ai suoi connazionali e nella loro lingua i loro disagi e le cure per porvi rimedio.
Insomma, la lingua dei medici e della medicina non è mai una sola lingua, e nemmeno parla mai con le stesse parole. Il medico deve certamente avere riguardo per la comunicazione e coltivare nella pratica quotidiana una specie di multilinguismo; sembra – lo nota Serianni nel suo studio – che la divaricazione tra i diversi tipi di lingua utilizzati dai medici nelle varie situazioni apra addirittura, con tutte quelle parole, a possibili difficoltà di intesa all’interno della stessa loro comunità; e ciò a fronte dell’affermazione generale (in inglese o in altra lingua che sia) di «un linguaggio iperspecialistico, che rischia di essere criptico per gli stessi medici con altra specializzazione: per esempio, per l’internista che deve interpretare che cosa voglia dire un neurologo quando, nella relazione di dimissione di un paziente, parla di eminattenzione sinistra».
Bibliografia
Luca Serianni, Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente, Milano, Garzanti, 2005.