Sarei tentato di proporre un piccolo esperimento: stipare gli scaffali delle librerie di una città notoriamente allergica alla jella (diciamo pure Napoli) con decine di copie della raccolta di Guido Calgari Quanto tutto va male e altri racconti tristi, recentemente riedita da Armando Dadò. Di fronte a un titolo simile, inconcepibile a certe latitudini, è da credere che sarebbero molti i gesti scaramantici alla ricerca di materiali ‒ legno, ferro, attributi del più vario genere ‒ in un disperato tentativo di contenere l’onda nera prossima ad abbattersi sui malcapitati lettori. In una libreria di Lugano probabilmente non si batterebbe ciglio.
La differenza sarà anche di natura antropologica e culturale, ma è certo che, con quell’opera e con quella copertina, un Calgari non ancora trentenne (1933) aveva inteso dichiarare in esplicito le proprie intenzioni: «Vita, fatti, disgrazie reali delle alte Valli ticinesi; il duro lavoro quotidiano per strappare i suoi frutti a una terra avara, il destino di certe famiglie, amareggiate e disperse dalle sciagure domestiche o dai tranelli della montagna…» (e via di questo passo, dalla quarta di copertina di allora).
Il cuore di quel progetto editoriale, concepito con non poco coraggio, oscillava tra i due aggettivi citati poc’anzi: «reale» e «quotidiano», perché nella forbice tra le cose che succeddono veramente, e quelle che succedono tutti i giorni, non è concesso scampo ai protagonisti delle storie evocate da Calgari.
Sullo sfondo si celavano un desiderio di cronaca, dato che tutti i racconti «sono veri, scrupolosamente veri», e una più ambiziosa indagine sulle origini della fuga in massa dalle terre ticinesi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo: «se il futuro storico vorrà tracciare un quadro completo della nostra emigrazione, nelle sue cause e nei suoi effetti, addentrandosi nelle Valli che gli offriranno maggior copia di materiale, dovrà preoccuparsi di registrare la vita durissima, penosa dei nostri montanari, la loro desolata povertà. […] Questo libro vorrebbe, modestamente, inserirsi in quel quadro».
Non andrebbe dimenticato infatti che una decina di anni avanti, nel 1922, era uscita la prima edizione del Libro dell’alpe di Giuseppe Zoppi, un quadro davvero troppo idillico della vita nelle valli ticinesi per non suscitare reazioni anche in forma letteraria: l’ultima della serie, e giustamente la più nota, Il fondo del sacco di Plinio Martini (1970). La risposta di Calgari, che se non cita esplicitamente Zoppi non lascia comunque dubbi di sorta («contro la concezione arcadica della montagna… fiorellini, caprette, polenta fragrante»), colpisce per la sua precocità.
Nativo di Biasca e cresciuto a Faido, l’autore osserva quanto ha sotto gli occhi in un raggio ristretto di chilometri e in un’epoca che potrebbe essere quella della sua infanzia, prima del suo trasferimento a Bologna per frequentare l’università (1924). Nelle sue pagine sfilano così il Bélo, che scende timoroso da Dalpe a Bellinzona per cercare di convincere l’autorità militare a lasciargli almeno il quarto figlio, Mario, essenziale per il lavoro sull’alpe; il vecchio Vitali di Altanca cui muore una mucca «torata», con tanto di vitello in arrivo; il Povero Togni «badola», vittima del lavoro nelle gole del Piottino, al cui funerale la moglie non riesce ad assistere «per difficoltà di frontiera»; e molti altri personaggi memorabili, ai margini della vita e del mondo.
Nella prefazione alla nuova ristampa, Nelly Valsangiacomo ricostruisce con competenza e passione il quadro storico nel quale si inseriscono queste tristi storie, senza però addentrarsi in questioni di natura letteraria. È essenziale invece chiedersi come scriveva Calgari, quali erano i suoi riferimenti stilistici, i suoi modelli, perché non era affatto scontato, per un ticinese del primo Novecento, anche soltanto pensare di mettere mano a una raccolta di racconti.
Una spia giunge dalle primissime righe del libro, in cui i «ciottoli ineguali» su cui sobbalza il calesse del Bélo riecheggiano le «cime inuguali» dell’Addio monti di Manzoni, così come gli avvocati della pagina successiva, «capaci di assieparti in una pagina una Valle di Giosafat di tranelli e di sottili imbrogli», non sono altro che degni eredi dell’Azzeccagarbugli («Non se ne scappa: ci son tutti: è come la valle di Giosafat»). O ancora la fuga di Martino (p. 78), così simile a quella di Renzo nei Promessi sposi; e si potrebbe continuare.
Che Manzoni potesse rappresentare un modello stilistico per il giovane Calgari non è cosa che stupisca, stupisce invece lo scarto sul piano morale: meno ironico, meno ottimista, meno «lieve» lo scrittore di Faido, che a volte si compiace di parentesi truculente e di repentini colpi di scena, simile in questo al manzonismo sarcastico e un po’ freddo di un Francesco Chiesa.
Mentre si annuncia per la prossima primavera una riedizione del Voltamarsina di Francesco Alberti, la collana «La rondine» dell’editore Dadò si offre sempre più come il luogo privilegiato per la riscoperta delle migliori pagine di prosa della letteratura ticinese del Novecento. Con alcune significative eccezioni: I giorni della vita di Giorgio Orelli (Lerici, poi Marcos y Marcos) e L’anno della valanga di Giovanni Orelli, ora nel catalogo di Casagrande assieme allo stesso Fondo di Martini, stampato a Bellinzona e non a Locarno ‒ anche questa è storia ‒ grazie alla generosa intercessione di Virgilio Gilardoni.
Bibliografia
Guido Calgari, Quando tutto va male e altri racconti tristi, Armando Dadò 2018, 194 pagine.