Tra il 14 febbraio e il 21 settembre del 1940, presso il Conservatoire National d’Art Dramatique di Parigi, Louis Jouvet tenne una serie di lezioni su una scena del Don Juan di Molière: più precisamente, la sesta del quarto atto: quella in cui donna Elvira supplica Don Giovanni di pentirsi e di cambiare vita per evitare la dannazione eterna. La parte di Elvira era interpretata da un’allieva del terzo anno, che con tale scena vinse il primo premio all’esame del Conservatoire.
Delle sette lezioni – che ci sono giunte in forma di testo stenografico, pubblicato a stampa nel 1965 – Brigitte Jacques ha curato un adattamento – intitolato Elvire Jouvet 40 – che nel 1986 Giorgio Strehler integrò con alcuni brani scritti da lui stesso, al fine di stabilire un collegamento tra i propri convincimenti e le proprie esperienze teatrali con i convincimenti e le esperienze del famoso attore e regista francese. Lo spettacolo che poi ne trasse inaugurò lo spazio del Teatro Studio, ricavato, su progetto di Marco Zanuso, dall’ex-Teatro Fossati.
Per aprire la sua settantesima stagione, il Piccolo Teatro di Milano ha pertanto deciso di co-produrre – con la cooperativa Teatri Uniti, di cui è direttore artistico Toni Servillo, che ha già lavorato in diverse occasioni per lo Stabile milanese – un nuovo allestimento del testo di Brigitte Jacques, tradotto per l’occasione da Giuseppe Montesano. Diversamente da Strehler, Servillo non ci ha aggiunto niente di suo, e lo ha messo in scena nella sede storica del Piccolo, in via Rovello.
Nello spettacolo di Strehler, la concezione severa del teatro, e dell’attore in particolare, che sottende e permea le considerazioni di Jouvet (considerazioni in cui si avverte con chiarezza l’influenza di Copeau) si manifestava anche attraverso l’estrema semplicità della scenografia. Collocati a vista sul pavimento circolare del Teatro Studio c’erano pochi oggetti: una sedia, due panche, e un asse con alcune lampadine accese che fingevano la ribalta.
Di eguale sobrietà è la scena dello spettacolo di Servillo. Sul palcoscenico: due sedie, un tavolino con una lampada, e una pedana su cui stanno principalmente i tre giovani allievi di Jouvet: Claudia-Elvira (Petra Valentini), Octave-Don Giovanni (Francesco Marino), Léon-Sganarello (Davide Cirri). In platea: una fila di quattro poltrone separate da quelle destinate al pubblico: Jouvet si muove tra palcoscenico e platea. Gli uomini vestono secondo la moda dei primi anni Quaranta: giacca, cravatta, gilet, pantaloni ampi e con le pinces, che «cadono» alla perfezione (i costumi sono di Ortensia De Francesco).
Nello spettacolo di Strehler, prima dell’inizio e verso la fine delle lezioni, venivano proiettate immagini di Hitler, dell’esercito tedesco, dei bombardamenti. Più sobriamente, nello spettacolo di Servillo – tra la quinta e la sesta lezione, se non ricordo male – viene diffusa una breve registrazione che evoca efficacemente l’occupazione di Parigi (avvenuta il 14 giugno del ’40) da parte delle truppe tedesche.
Nel 1986, se Louis Jouvet parlava per bocca di Giorgio Strehler (che ovviamente non cercava affatto di restituirne l’immagine per via mimetica), Strehler, da parte sua, si rivelava attraverso le parole – che diceva di condividere ampiamente – di Jouvet. E Giulia Lazzarini (che portava calze di seta con la riga posteriore e scarpe con le suole di sughero) era al tempo stesso Claudia, l’allieva, e Giulia, un’attrice ormai di grande esperienza, impegnata – sotto la guida del Maestro, di Strehler-Jouvet – ad andare «oltre, più in alto», il più vicino possibile all’inattingibile verità del personaggio. Il sospetto di enfasi spiritualistica qua e là suscitato dalle parole del testo non era certo attenuato dalla recitazione di Strehler, che dava quasi sempre l’impressione di essere uno a cui piaceva ascoltarsi.
Un sospetto di autocompiacimento e di enfatizzazione del testo lo suscita, in rari momenti, anche la recitazione fluida e nitidamente articolata di Toni Servillo. Ma si tratta di pecche quasi trascurabili, che arrecano un danno minimo a tutto il resto. Il tono e i modi con cui Servillo-Jouvet muove degli appunti a Claudia, e la incita a «cercare e trovare il sentimento» al di là della ragione e della tecnica, sono di una pacatezza o di un fervore da vero maestro e da attore di primordine.
Diversamente da Petra Valentini (che rende poco avvertibili i progressi fatti da Claudia nell’approfondire il personaggio di Elvira), Servillo oltrepassa sempre, coi gesti e le parole, l’invisibile parete che lo separa dagli spettatori. La sua interpretazione non è mai priva di ciò che Jouvet chiama «la presenza in relazione al pubblico». Che lo segue con grande attenzione, affascinato.