Classici stravolti per capire il presente

Melanconica poesia e immagini simboliche per una pièce storica
/ 11.11.2019
di Giorgio Thoeni

È nei ricordi più intimi (e scabrosi) che si annidano le trame più significative della nostra vita. Il teatro è fatto di ricordi e di sensazioni, traumatiche verità e narrazioni di personaggi memorabili, un’umanità che trova rifugio nella memoria. Un appassionante gioco di neuroni a specchio dove il testo drammatico riveste un ruolo determinante e il teatro ce la mette tutta con la magia delle sue riletture, nell’eterna sfida di capolavori che ci raccontano il divenire del palcoscenico, un rito che appassiona tutti, sia chi dedica la vita al teatro ma anche scienziati e ricercatori che vi ritrovano i misteri della vita. 

I classici della drammaturgia sono inoltre parte importante nel processo di crescita del pubblico ed è bello poter incontrare produzioni che guardano con attenzione, coraggio e qualità alle lezioni del passato, quelle che hanno segnato la storia e l’evoluzione del teatro e che riescono a rivivere in scena grazie a nuove e intriganti interpretazioni. Come Lo zoo di vetro (The Glass Menagerie, 1945) di Tennessee Williams nell’allestimento prodotto da LuganoInScena con la regia di Leonardo Lidi, spettacolo sostenuto, fra gli altri, dal Percento culturale di Migros Ticino e che ha recentemente debuttato al LAC.

Un dramma della memoria (memory play) come l’ha definito l’autore: frammenti di emozioni (mood piece) dal taglio autobiografico dove note di lirismo crepuscolare e simbolismo prevalgono sul realismo. Un aspetto dichiarato in apertura da uno dei personaggi, didascalia che introduce una scena costituita da una piattaforma per l’interno di un appartamento delimitato sul fondo dalla sagoma di una casa. Un lampione ricorda lo spazio esterno ricoperto di trucioli azzurri di polistirolo.

Una soluzione che dà ulteriore risalto alla scelta di costumi clowneschi per i personaggi connotati da un trucco circense, biacca e naso rossi. In un angolo del proscenio una figura seduta, immobile: inclinerà la postura come ultima resa nella silenziosa evocazione di un padre-marito che pesa sui destini della famiglia Wingfield da lui abbandonata: la moglie vedova bianca (Amanda: Mariangela Granelli) che vive di ricordi col desiderio di accasare la figlia zoppa, complessata e timida (Laura: Anahì Traversi), custode di una delicata collezione di miniature in vetro e un figlio (Tom: Tindaro Granata), aspirante poeta sempre in fuga dalla realtà, una sorta di Pierrot Lunaire. La voce di Laura apre la scena cantando «Quella carezza della sera (non so più il sapore che ha…)» sulle note di un’arpa.

Lidi taglia, ricuce, inventa, adatta, compatta, trasforma, asciuga il testo rendendolo palpabile nella sua scomoda verità. Con un occhio di riguardo alle meticolose annotazioni dell’autore per una concezione «di un teatro nuovo, plastico, che deve prendere il posto del teatro, ormai superato, delle convenzioni realistiche, se il teatro vuole riprendere vita come parte della nostra cultura».

Parole di un’attualità sconcertante, una forza che la visione registica alimenta con il disequilibrio espressivo della maschera dei personaggi, una recitazione sostenuta e scene memorabili. Come la lite furibonda fra Amanda e Tom in un fiume di battute rovesciate all’unisono, un potente contrappunto verbale di grande efficacia simbolica (e bravura). O l’effetto della danza macabra di The Haunted House, cartone animato di Disney (1929) con Micky Mouse inseguito dagli spettri, proiettato sull’angosciata immobilità dei Wingfield. E le scene con l’invitato (Jim O’Connor: Mario Pirrello), breve e umiliante illusione d’amore di Laura e parabola finale segnata da una sobria e elegante comicità. Fino al finale che ricorda la storica conclusione strehleriana de I Giganti della montagna col crollo sulla scena della sagoma della casa, simbolo di disfacimento di una famiglia.

Platea delle grandi occasioni e unanime tributo con ripetute chiamate per gli attori, il riconoscimento per uno spettacolo decisamente riuscito grazie a una squadra azzeccata.