«Quanto bisogna faticare per ricavare un paio di talleri da una città. Quando alle 10 di sera te ne stai seduto da Poppe o vai a casa, io, poverina, devo ancora suonare in società e alla gente in cambio di due belle parole e di una tazza di acqua calda; verso le 11-12 torno a casa stanca morta, bevo un sorso d’acqua e penso: l’artista è considerato più di un mendicante?».
La diciottenne pianista Clara Wieck così scriveva al suo innamorato, il compositore ventisettenne Robert Schumann. Questa lettera-diario risalente al dicembre 1837 è ora inclusa in Clara Schumann Wieck, Lettere, diari, ricordi, (introduzione, traduzione e note di Claudio Bolzan, edizione Zecchini, € 20). Un volume molto utile per conoscere in lingua italiana le scene della vita, pre e post-matrimoniale della pianista-compositrice, di cui quest’anno cade il bicentenario della nascita.
Clara visse con Robert Schumann uno degli amori più travagliati della storia della musica romantica. Infatti per anni il padre-padrone, Friedrich Wieck, avversò i promessi sposi, negando il consenso alle nozze. Per questo egoistico proposito e con la scusa che lo sposo non guadagnava a sufficienza come compositore e critico, non esitò ad usare ogni mezzo: ricatti sentimentali, minacce, sequestri giudiziari, diffamazioni. La vita «mendica» da concertista errante di Clara, quella per cui il padre l’aveva così ben preparata e di cui voleva essere unico beneficiario, garantì però il sostentamento dei coniugi Schumann e della loro numerosa prole (ebbero otto figli, di cui sette sopravvissuti, in 16 anni di matrimonio).
La vita della neo-sposa-madre cominciò a ritmi molto pesanti. Nel 1848, fuggiti in campagna dalla rivoluzione di Dresda, Clara scriveva alla migliore amica Emilie List: «il mio tempo è calcolato minuto per minuto; do ogni giorno 2-3 ore di lezione, inoltre suono anche un’ora, scrivo il diario, una volta arrangio questo, una volta quello per pianoforte, ogni giorno vado con Robert come minimo un’ora, provvedo ai miei figli, pratico l’inglese (con una mia allieva di Plymouth), per non ricordare le visite che devo fare e ricevere». Quando Robert si gettò nel Reno dal ponte di Düsseldorf e finì in clinica psichiatrica perseguitato da allucinazioni sonore di demoni e angeli, non era ancora nato l’ultimogenito che portava il nome di Felix, omaggio al venerato collega Mendelssohn, un giovane di tante speranze che sarebbe diventato poeta. In questa situazione tragica Clara si fece carico di tutto e tutti, intensificando le tournée di concerti, appoggiata da alcuni fedelissimi di cui divenne partner storica: il grande violinista ungherese Joseph Joachim, il baritono Julius Stockhausen, e soprattutto colui che era stato indicato dal marito come il Predestinato, Johannes Brahms, l’uomo che la amò e la venerò per tutta la vita.
Clara Schumann divenne nella seconda metà del XIX secolo l’indiscussa depositaria della musica di Schumann e di Mendelssohn, che con Beethoven e Chopin rappresentavano i suoi evangelisti musicali. Brahms, si può dire, fu una continuazione del rapporto col marito-compositore, senza vincolo di coniugio, essendo diventata apostola della sua musica (soprattutto del Primo concerto per pianoforte e orchestra), e sempre più spesso interlocutrice privilegiata nella fase di composizione e revisione delle opere pianistiche, cameristiche e sinfoniche.
Clara ebbe il dolore indicibile di perdere la figlia Julie pochi mesi dopo sposata (fu desiderata in moglie anche da Brahms) a causa della tubercolosi, che portò via anche l’ultimogenito Felix, il figlioccio di Brahms, che i figli Schumann amavano «per il suo amore per nostra madre». Tra parti, reumatismi e concerti ogni dove, Clara vinse le incertezze anche come compositrice. Nel 1840 scriveva di non essere «in grado di comporre; a volte questo mi rende davvero molto infelice, tuttavia la cosa non va davvero, non ho alcun talento per questo. (…) Un Lied poi, non ci riuscirei proprio; comporre un Lied, comprendere totalmente un testo, per far questo ci vuole ingegno».
Col marito in manicomio tornò a studiare («non c’è nulla al di sopra dell’auto-creazione, anche se viene solo per un’ora di svago, ove non si respira che suoni»), scrivendo pezzi e romanze più mendelssohniane che schumanniane (un recente cd Decca della pianista inglese Isata Kenneth Mason ci fa conoscere il suo Concerto per pianoforte – sistemato da Robert – e le eleganti romanze e le trascrizioni dai Lieder del marito). Suonare per lei era come respirare. D’altronde lo aveva scritto al Pigmalione-fidanzato-Robert: «l’arte è un bel dono! Cosa c’è di più bello che rivestire di suoni i propri sentimenti; quale consolazione nelle ore tristi, quale godimento, quale bella sensazione procurare a qualcuno un’ora serena! E che sensazione sublime praticare l’arte tanto da sacrificare per questo la propria vita!».