Ciao a tutti!

Nella bella serie del Mulino dedicata alle parole che fanno la storia dell’italiano, un volumetto, simpatico e approfondito, sul saluto più diffuso al mondo
/ 27.08.2018
di Stefano Vassere

«Bisogna propriamente dover dire in mezzo a questa Babilonia di ladri e asini, che tale è divenuta la terra del sì, a cui è subentrata la terra del ciao e della buzzurreria, per essere spettatori e vittime di queste non meno furfantesche che ridicole contraddizioni. L’Italia, la terra del sì o terra del ciao, è feconda e feracissima di bestie».

È noto che nel lessico dell’italiano (e di tutte le altre lingue) alcune parole non sono semplici parole, ma spesso sono mondi interi, amplissimi nelle coordinate spaziali e temporali: esse portano non un significato ma un’enciclopedia di significati, raggiungono geografie lontane e non di rado fuori dal nostro e dal loro territorio; ripiombano tutti indietro nel tempo, in epoche lontane, su su fino alla loro origine etimologica che non di rado ci sorprende e ci svela ulteriori strade linguistiche e culturali. Succede così, con le parole della collana della casa editrice il Mulino che si chiama «Parole nostre», la quale, dopo Bravo, Pizza e Parola (la parola parola) giunge ora a Ciao curato da Nicola De Blasi, che insegna Storia della lingua italiana nell’Università di Napoli «Federico II».

Ciao è anche una specie di parola-simbolo di un intero cammino sociolinguistico: perché viene dal dialetto (veneziano o lombardo), poi migra nell’italiano regionale settentrionale escluso il Piemonte, trova qualche resistenza al Centro-Sud, finalmente approda nemmeno troppo tempo fa in pieno Novecento all’italiano tout court, quello senza condizionamenti regionali, e parlato e scritto tutti i giorni. Ma non è tutto, perché ciao infine parte alla conquista del mondo insieme a pizza, mamma mia, cappuccino, spaghetti e tutte le sue amiche del made in Italy più tradizionale. Appurato e dimostrato fonti alla mano (lo sanno quasi tutti, del resto) che l’origine del nome trae spunto dall’uso del termine schiavo come formula di saluto («Vostro schiavo!» come «Servo vostro!»), compito del lettore di questo libro è seguire De Blasi lungo le non facili strade che portano a datare i primi usi dei derivati di schiavo in questo significato.

La storia della parola è decisamente divertente. Scopriremo ad esempio che ciao si diffonde forse non a caso mentre si estende il potere del confidenziale tu; che fu combattuto nelle regioni dove era percepito come settentrionale, teatrale e snob (a Napoli e a Roma, dove fu spesso preso in giro e associato a valori ritenuti estranei e volgari); che già nella sua forma originale e nelle commedie di Carlo Goldoni non era inusuale una reduplicazione schiavo schiavo come l’odierno ciao ciao; che l’opacità etimologica doveva già essere piuttosto diffusa un secolo e mezzo fa se l’illustre storico Cesare Cantù ne identificava un’origine celtica; che già in Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro lo usano con il significato di «andiamo avanti» (ma non con quello di «ci è andata bene» che è di s-ciáo nel dialetto ticinese); che ciaone non è termine recente e televisivo come potrebbe sembrare, forse.

Parlare di ciao significa infine accostare una disciplina ponte e a suo modo regina della linguistica moderna, la pragmatica. Che studia come si fanno letteralmente delle cose con le parole e come le parole riflettono quello che si sta facendo. Così, immagine coraggiosa ma piena di fascino affidata alle ultime pagine di questo sapiente libro (poco prima di congedare il lettore con i versi di «Ciao ciao ciao, morettina bella ciao» che tutti conosciamo) ci dice che fior di linguisti e un po’ anche l’autore si fidano dell’ipotesi che avvicina la gestualità associata al saluto, quella della mano alzata che apre e chiude il palmo più e più volte, all’unico gesto consentito alle mani di chi, come uno schiavo, «avendo i polsi legati, può solo aprire la mano o muovere le dita».

Bibliografia
Nicola De Blasi, Ciao, Bologna, il Mulino, 2018.