Cevoli, il segreto del suo successo

A colloquio con il celebre comico italiano che da qualche anno porta in tournée spettacoli che trattano di temi storici, politici e religiosi
/ 01.10.2018
di Enrico Parola

Chi si è affermato tra il grande pubblico come un improbabile assessore romagnolo che dal palco di Zelig parodiava i vizi della politica italiana può affrontare i vertici della cultura e della storia umana, può proporsi in spettacoli seri? La risposta è sì, ovviamente. Il caso più eclatante è quello di Roberto Benigni che da Johnny Stecchino s’è reinventato padre amorevole ai tempi dei lager con La vita è bella e soprattutto cantore della Divina Commedia, arrivando addirittura a fermare il Festival di Sanremo recitando sul palco dell’Ariston il 33esimo Canto del Paradiso.

Nel suo piccolo (è meno famoso del collega toscano e soprattutto raggiunge a stento il metro e sessanta) Paolo Cevoli ha percorso la stessa parabola: l’assessore Palmiro Cangini nonché, altro fortunato ruolo che ha portato a Zelig, «Imperatore dei maiali» Teddy Casadei, da qualche anno porta su e giù per l’Italia spettacoli che trattano di Mussolini e Michelangelo, dell’Ultima Cena di Cristo e dell’Antico Testamento. «Ma secondo una mia prospettiva: raccontare grandi storie dal punto di vista di gente piccola. L’Ultima Cena è ripercorsa da Simplicio Marone, un cuoco romagnolo che ha importato la piadina dagli ebrei a Roma, Mussolini dal suo sosia, Michelangelo da Cencio Donati, garzone tartaglione che, facendo casini nella bottega, involontariamente dà all’artista le idee migliori. La Bibbia... beh, qui le storie sono tante e così le voci. Il volume è enorme ma è forte: pensi che all’inizio Dio dice agli uomini di moltiplicarsi, non di addizionarsi, quindi è un invito esplicito a…»

Tra «gnocche» e «patacche» (dal dizionario romagnolo: belle donne e poco di buono) scorrono le imprese di Davide e l’invidia di Caino, «sempre affrontati a modo mio: i temi e gli spunti sono seri, ma li racconto cercando di far ridere. Un po’ perché l’ho sempre fatto, dalle elementari all’università, studente di Giurisprudenza a Bologna; un po’ perché l’ho imparato da mio padre e da Chesterton: è possibile affrontare tutto con leggerezza. Quando arrivò don Giorgio per l’estrema unzione mio babbo, che sarebbe morto un’ora e mezza dopo, gli fece una battuta, e poi un’altra; Chesterton diceva che gli angeli volano perché si prendono alla leggera. Per me la vita è una commedia perché ho la speranza che alla fine tutto s’aggiusti, che ci possano essere complicazioni, dolori, problemi, ma poi ci sarà un lieto fine».

Per esprimere compiutamente il concetto in romagnolo («Sa qual è la differenza tecnica tra l’Emilia e la Romagna? È che quando chiedi da bere in Emilia ti danno un bicchiere d’acqua, in Romagna ti danno il vino») Cevoli, non rinunciando alla sintassi improbabile dell’assessore Cangini, conia il neologismo «ignorantezza». Che, come recita il suo personale vocabolario, significa testualmente: «L’ignorantezza è quella cosa che tu magari non capisci ancora bene, c’hai un barlume, come quando ti sposi e non hai ben presente che cosa ti aspetta: il marito, la moglie, i figli… dici: vedremo, dai, che… Ecco, l’ignorantezza è quella cosa che ti permette di dire: in fondo la vita è positiva, c’è qualcosa che non dipende da te e riusciremo a cavarcela».

Per Cevoli l’«ignorantezza» non è un copione imparato ma esperienza personale: «Sono figlio di albergatori, mamma faceva la cuoca e papà lo showman, come si usava una volta. Io ho debuttato nella sala della pensione Cinzia, zero stelle; altro che frigobar in camera, era già buono che avessimo il frigo: è passato il signore che dava le stelle e disse che faceva fatica a darne una, quindi ha lasciato perdere. Comunque io crescendo lì ho iniziato a lavorare sin da piccolo. Sono nato in mezzo ai clienti e quindi il senso del servire l’ho avuto fin da bambino».

È ricordando queste umili origini oltre che osservando, durante un viaggio in Palestina, le griglie lungo le sponde del lago di Tiberiade («ho pensato: chissà se Gesù ne aveva una così quando, risorto, aspetta i discepoli sulla riva? Chissà che grigliata divina si saranno mangiati») che ha compiuto il primo passo verso temi biblici, con La penultima cena, vista dalla prospettiva di Simplicio Marone, «cuoco ignorantissimo che non ha capito nulla di Gesù, ma dopo averne visti i miracoli lo rincorre per farlo suo socio. Il tutto comincia con le Nozze di Cana: il padre della sposa gli dà pochi soldi e ovviamente il vino finisce, va a comprarne altro ma intanto Gesù ha tramutato l’acqua in vino e quindi Simplicio, quando torna con le otri, rimane fregato e indebitato. Poi stipula con Giuda un contratto per fare il catering quando Gesù raduna le folle: va a prendere pane e pesci, arriva e Gesù ha moltiplicato quel poco che avevano e la folla è sazia. Ci rimane male, ma il senso romagnolo degli affari gli fa capire che sarebbe il socio perfetto per far soldi».

Seppur avesse praticato l’arte del far ridere fin da bambino, Cevoli non pensava di diventare attor comico di professione: «Nel 1990 a Bologna c’era il concorso “La zanzara d’oro”, vi partecipai più per scommessa che per reale convinzione; c’erano Antonio Albanese, Fabio De Luigi, Diego Parassole e tanti altri. Mi vide Maurizio Costanzo, che mi invitò varie volte nella sua trasmissione; poi Gino e Michele mi coinvolsero nella loro Su la testa con Paolo Rossi, ma qui decisi di non andare perché avevo il mio lavoro nel campo della ristorazione. Ci fu un primo treno che mi disse “vieni a fare il patacca in tv”, ma non vi salii». Il secondo treno, quello su cui Cevoli è salito, fermava all’ambitissima stazione di Zelig. Era il 2002, anno di grazia per l’assessore Palmiro Cangini e l’«Imperatore dei maiali» Teddy Casadei. Un successo incredibile.

«Il successo è una cosa inaspettata, bella, tutti ti conoscono e ti vogliono bene; mi stupisce l’affetto che la gente ti dimostra per strada perché vai nelle loro case a portare un po’ di spensieratezza, di divertimento. Il successo si costruisce con talento, lavoro, capacità di relazione e, come diceva il grande Arrigo Sacchi, il fattore C».