Dove e quando
Jean-Marc Yersin. Crises. Chiasso, Galleria ConsArc (Via Grütli 1). Orari: ma-ve 9.00-12.00 / 14.00-18.30; sa 9.00-12.00; chiuso do, lu e festivi. Fino al 28 aprile 2018.


C’era una volta Chicago

La Galleria ConsArc di Chiasso ospita l’impressionante lavoro di Jean-Marc Yersin sulle rovine industriali della grande città statunitense
/ 02.04.2018
di Gian Franco Ragno

La chiamano, oggi, la «nuova Detroit». Facendo riferimento al triste destino dell’ex-capitale mondiale dell’auto, così efficacemente raccontata da Michael Moore nel suo primo documentario, Roger and Me. Parliamo di Chicago, una delle città maggiormente colpite dalla recente crisi economica. È anche la città della ex-first lady, Michelle Obama, passata dalle periferie di South Side alla Casa Bianca. Tuttavia, per una buona fetta di afroamericani della periferia, il destino segnato sembra essere quello della disoccupazione. 

Alla recessione economica sono seguite tensioni razziali e scontri su vasta scala – innescati, nell’ottobre del 2014, dall’ennesimo omicidio arbitrario da parte della polizia di un diciassettenne afroamericano, peraltro disarmato. Non solo: la città si trova in uno stato di bancarotta finanziaria e deve fare i conti con un rilevante esodo di residenti benestanti – impauriti dal crescente clima di terrore. 

A quei difficili giorni fanno riferimento le immagini del 2016 di Jean-Marc Yersin che vediamo alla Galleria ConsArc di Chiasso. Non si tratta di un reportage, non nel senso stretto del termine. Bensì di un’indagine sui luoghi e sulle dimensioni della crisi economica della metropoli sulle rive del Lago Michigan. Una sorta di archeologia dell’immediato presente, dello stato di abbandono che conquista velocemente immense superfici industriali. Fabbriche, edifici, ponti, zone ferroviarie e binari senza vita. Insomma, tutto ciò che rimane delle vestigia industriali della terza città degli Stati Uniti e che, come titola il progetto, entra in «crisi» profonda e necessita di un ripensamento.

In una dimensione di metafisico silenzio, i luoghi rappresentati dal fotografo romando raccontano anche, in trasparenza, un numero indefinito – ma comunque rilevante – di destini interrotti, di posti di lavoro che sono scomparsi e che difficilmente potranno essere riconquistati. Occupazioni del settore secondario che sono state semplicemente trasferite altrove, dove spesso il rispetto per le condizioni di lavoro e l’attenzione all’ambiente sono poco considerati. Sono le zone in cui crescono e si sviluppano le «fabbriche del mondo», ovvero Cina e India, in feroce competizione tra di loro. Curiosamente si tratta di paesi lontani che sono stati ben raccontati, sulle stesse pareti, da altri fotografi svizzeri come Georg Aerni e Andreas Siebert.

Va sottolineato quanto, sul piano formale, Yersin abbia pianificato con cura le riprese, attraverso uno studio in più momenti. Inizialmente con una prima ricognizione e alcuni studi propedeutici e schizzi a matita, quasi a voler meditare più lentamente sulla porzione della realtà da ritagliare. In seguito, dopo la fase di ripresa, con attenta stampa, in formato quadrato, in un bianco e nero molto intenso e profondo. Tale approccio costruttivo viene sottolineato dall’allestimento: brevi sequenze di fotografie oppure quattro immagini che compongono a loro volta un quadrato più ampio, con continui riferimenti e rimandi di linee e forme.

Fotografo professionista per molti anni a capo del Musée de l’Appareil photographique di Vevey e co-fondatore del famoso fotofestival Images, negli scorsi decenni Jean Marc Yersin ha frequentato largamente il continente nord-americano: luogo mitico per generazioni, affascinante per movimenti culturali e artistici, esso è stato sin da inizio anni Ottanta il suo territorio d’elezione, come nel progetto Downtown del 1981. 

Scalzata – nonostante i proclami che affermano il contrario – dalla sua posizione di primato economico mondiale, l’America di Yersin conserva tuttavia la sua potenza visiva e il suo fascino. E tutto questo senza cadere nel catastrofismo di un suo futuro declino. Faccio qui riferimento al fortunatissimo libro di Yves Marchand e Romain Meffre, The Ruins of Detroit – ricco di riprese scenograficamente apocalittiche della città – accostabile, ma solo per tema, al lavoro presente a Chiasso.

Più contenuto e ragionato nei risultati, Yersin sembra avere ancora fiducia nelle possibilità visive, e quindi narrative, del mezzo e del prodotto fotografico. Ciò costituisce un punto di partenza e insieme d’arrivo. Un appiglio da cui ripartire e sul quale ricostruire qualcosa di nuovo. Con la forza dell’immaginazione, certo, ma anche con una dose di fiduciosa progettualità. Perché peggio della crisi, c’è solo la crisi delle idee.